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Chi ha paura del reddito di cittadinanza?

Creato il 09 novembre 2013 da Albertocapece

images (2)Qualcuno s’indigna, altri non capiscono o si stupiscono. Per esempio Alessandro Gilioli si chiede come mai il Pd per bocca di Fassina rifiuti la proposta di reddito di cittadinanza avanzata dal M5S con l’argomento sbrigativo e peraltro scorretto* che non ci sono coperture. La risposta è che l’ira piddina nasce dal fatto che la proposta dei cinque stelle è quella che il partito avrebbe dovuto avanzare da molto tempo, insomma una sorta di cattiva coscienza nei confronti di uno strumento che l’Europa ci stimola ad usare ormai dieci anni e che anche gli economisti alla Cipolletta vedrebbero con favore.

Probabilmente c’è anche questo elemento, ma la risposta vera è molto più complessa e affonda le sue radici nella creazione del modello Italia dentro il quale si è sempre cercato di sostituire i diritti con privilegi ad personam o di categoria, dove il welfare è stato sempre interpretato come una sorta di voto di scambio e proprio per questo è rimasto gracile, soffocato dalle elargizioni di posti e prebende, di “favori” e aiutini sotto molteplici forme. Il sistema politico da molti decenni e forse da sempre è stato orientato a trattare con clientes piuttosto che con cittadini costruendo proprio su questo un patto sociale anomalo, ambiguo e fonte di corruttela. E’ chiaro perciò che la prospettiva di un reddito di cittadinanza o minimo che peraltro esiste in tutto il continente, è qualcosa che si scontra direttamente con la struttura del potere. Persino i sindacati sono fortemente contrari temendo di perdere presa nel mondo del lavoro, soprattutto quelli che sono a libro paga dei padroni del vapore.

Il dramma è che la disoccupazione e la povertà dilagano a causa della doppia crisi che si è abbattuta sul Paese: una tutta nostra causata dal disfacimento di un modello ormai insostenibile, l’altra quella globale che ha creato una superinfezione su un organismo già debilitato. Il dramma è che non c’è via d’uscita a provvedimenti che in un modo o nell’altro riescano a sostenere un livello di vita e di consumi minimi per salvare non solo la dignità, ma anche ciò che resta dell’economia. Senza questo il malcontento sarà destinato ad esplodere come una bomba ad alto potenziale non appena il “welfare” familiare avrà esaurito le risorse accumulate nel tempo. E tuttavia si traccheggia, si tira il culo indietro perché l’establishment italiano (mafie comprese) teme che un reddito minimo eroda le fondamenta del proprio potere e finisca per trasformare i clienti in esigenti cittadini non più facilmente ricattabili sia sul lavoro che dentro le urne. Cittadini che magari si mettano in testa la bizzarra idea di volere un buon governo, una sanità che non sia il bancomat dei partiti e degli speculatori, un’amministrazione pubblica efficiente e non lottizzata, appalti senza tangenti.

Il problema politico non è se l’Italia debba dotarsi di strumenti normali nella stragrande maggioranza dei

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Paesi europei, ma di come e in che misura attuarli: a seconda dei livelli e dei metodi utilizzati si può infatti stimolare la rinascita di un’economia sana, seria e intraprendente che non ha bisogno di immiserire materialmente e culturalmente la popolazione, oppure abbassare a tal punto il minimo vitale da dare spazio alle imprese di rapina, ai salari da fame e soprattutto a una precarietà che grazie ai soldi pubblici e alla sopravvivenza garantita da essi, mandi alle stelle i profitti privati. La Germania da questo punto di vista è un’ottima rappresentazione diacronica della doppia personalità del reddito  minimo: sino alla fine degli anni ’90, grazie a un generosi sussidi il reddito di cittadinanza ha favorito la nascita di un sistema economico basato sull’alta qualità e sulla competenza, poi con la drastica diminuzione dei sostegni è stato invece incoraggiato il meraviglioso mondo liberista della precarietà, dei mini jobs e dei salari da fame. Così che il Paese è adesso una sorta di dottor Jekill e mister Hide, dove il meglio e il peggio si confondono e ancora non deflagrano grazie alla capacità di far aderire le vittime al pensiero dei carnefici o magari creando il feticcio delle cicale del Sud per riversare su cause e timori esterni il malcontento.

Come si vede le cose non sono affatto semplici e ci sarebbe ampio spazio per far valere le differenze di idee e prospettive dei vari schieramenti, battendosi tra reddito di cittadinanza o reddito minimo ( la differenza c’è eccome) e sui loro eventuali livelli a patto però di far politica e di non limitarsi a difendere il decotto sistema – Italia e i rappresentanti del medesimo. Dire semplicemente che il reddito di cittadinanza non si può fare, non è nemmeno più politica, è solo aggrapparsi al passato come del resto fa da sempre una certa destra padronale sciocca, avvilente e ignorante, tipica del berlusconismo bottegaio e paradossalmente priva di etica del lavoro.

* L’esperienza fatta dal dopoguerra dimostra che i redditi di cittadinanza o i redditi minimi , finiscono tutti in consumi di base e quindi  tornano al’ 70% nelle casse dello stato sotto forma di imposte indirette (iva per esempio), tassazioni dirette dovute all’aumento delle attività economiche e minori spese di assistenza. E per altro, come è stato recentemente dimostrato (qui un articolo molto tecnico per i curiosi)  , determinano un aumento dell’occupazione e non la sua diminuzione, come superficialmente si potrebbe credere e come fanno credere i media. 


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