Ha orrore della cultura e timore della memoria storica, perché si richiamano ad una tradizione e un concetto di libertà che non possono essere tollerati. Prova un rifiuto quasi “epidermico” per tutte quelle realtà dove si produce analisi e riflessione, che rappresentano un serbatoio prezioso di dinamismo culturale e artistico per il Paese, che fondano la nostra identità. Orrore e timore, quindi. Ma perché? Perchè l’unico modello dominante deve essere quello del consumo sfrenato, dell’avere ad ogni costo, dell’apparire in ogni contesto: niente di più distante dalla libertà di pensiero e dalla capacità critica. E a veicolarlo, soltanto la tv commerciale oppure, al massimo, giornali assoggettati e controllati per mezzo di megafoni da minculpop, che ci ostiniamo a definire giornalisti ma che in verità sono soltanto speaker del regime. Berlusconi è stato, ed è, anche questo: un modello sub culturale che ha infiltrato la società, che non ha trovato baluardi abbastanza convincenti ad opporgli resistenza, che ha prodotto una rieducazione forzata degli italiani. Quasi vent’anni di bombardamento mediatico che ha consentito di allevare un intero popolo all’idea del mercato come unico signore, alla convinzione che la vita si riduca ad un costante stordimento dentro il centro commerciale e che la felicità risieda proprio qui, nel tempio sacro del negozio dove celebrare il rito salvifico dell’acquisto. E’ il dominio della “robba”, verghianamente intesa. Ai giovani si propone-impone il modello del successo facile, ricavato dall’apparenza e, soprattutto per le donne, dalla mostra del corpo bello e ammiccante. Parallelamente lo studio e la formazione sono quasi un’onta per chi cerca di costruirsi un futuro professionale che sia legato a parole come sacrificio, merito, impegno. Perché non sei ciò che sei, ma sei soltanto ciò che hai. Avere materiale è il verbo sacro, la ricetta della felicità (che fa infelici in verità) è nel denaro, su cui puoi contare e che devi ostentare. Questa “filosofia culturale”, questo modello antropologico e sociale, questa concezione ideale spiega le scelte politiche dei grandi tagli operati con la manovra di Tremonti. 232 istituti (fondazioni, accademie e associazioni) privati dell’ossigeno economico, con l’azzeramento di 6milioni di euro, in modo indiscriminato. Alimentano la cultura e l’arte offrendo opportunità professionali e rappresentano un servizio pubblico, ma sono ritenuti inutili, perché ad esser ritenuto inutile è il loro lavoro. Biblioteche e archivi, che custodiscono la memoria storica del Paese, vengono per esempio usati per far cassa e, paradosso dei paradossi, proprio mentre si celebrano i 150 anni dell’Unità d’Italia. Soltanto il 30% del denaro prodotto da questa politica (?) dei tagli potrà essere ridistribuito tra le istituzioni che ne facciano richiesta, documentata e motivata, attraverso una scelta discrezionale del ministero dell’Economia (vero protagonista della partita visto l’esautoramento del responsabile del settore Bondi). Si capisce quindi come si apra la strada ad una logica e ad una prassi clientelari, strangolando l’unico esempio italiano di integrazione riuscita fra pubblico e privato. Istituto Gramsci, Fondazione Basso, Accademia della Crusca, Istituto di studi filosofici: tutti nomi storici del patrimonio culturale italiano destinati all’estinzione senza nessuna remora per il futuro di questo Paese, che sulla memoria storica e sull’arte e sulla cultura dovrebbe poggiare. In parallelo si privatizza e si distrugge l’istruzione democratica: il pubblico può e deve morire sotto i colpi di una concezione classista dello studio. Questa è la nazione che vorrebbero farci diventare, questo è il disegno a cui opporci. E’ in atto da tempo lo scontro tra la cultura della ricchezza e la ricchezza della cultura e una democrazia dovrebbe sapere da che parte schierarsi, perché quella parte è l’unica giusta e l’unica vitale. E questa parte è quella di una cultura che non produce voti e consenso acritico, ma cittadini consapevoli. Ma proprio per questo il Governo la condanna a morte, avendone paura.
Luigi de Magistris
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