La cosa grave del fatto che Hunger Games sia la fotocopia di Battle Royale, non è tanto che gli autori del film, e del libro all'origine, non ne abbiano mai fatto parola e sollecitati sull'argomento abbiano solamente indicato influenze e ispirazione. La cosa grave del fatto che Hunger Games sia la copia furbetta e nascosta di un film più vecchio e meno famoso (almeno qui da noi e negli Stati Uniti), è che proprio per questo motivo, per essere cioè qualcosa di già masticato e ripassato, incassi centinaia di milioni e venga percepito come lo specchio di un'epoca e delle sue passioni, dei suoi piaceri e delle sue derive. Leggo qui che al 16 aprile, prima ancora dell'uscita italiana, aveva già incassato in tutto il mondo 531 milioni di dollari, mentre già lo scorso 26 aprile Vittorio Zucconi ne scriveva su Repubblica spadellando il suo solito tono da battaglia di Okinawa, tirando in ballo l'incubo, la distopia, l'Antica Roma, Diana cacciatrice, Survivor, Victor Hugo, Metropolis, l'evoluzionismo darwinista, la riforma sanitaria di Obama, tutto lo scibile umano insomma, ché film come Hunger Games, come non accorgersene, sono lo specchio di una nazione e di una società, anche se siamo nel 2012, anche se i reality sono ormai roba di dieci-quindici anni fa e prima ancora di Battle Royale avevano già fatto The Truman Show e dopo sono venuti EdTV, Live, L'implacabile e altri che sicuramente non so, oltre a qualsiasi fantasy distopico vi venga in mente e naturalmente a Twilight, ché gli innamorati di oggi sono tutti feriti dentro e lo dicono con gli occhi molli. Hunger Games non è nulla che già non sappiamo, nulla che non abbiamo già visto e vorremmo vedere: anche il fatto che nella prima mezz'ora sia girato come un film indie, con tutti quei colori saturati, quella camera mobile, instabile, fragile come la sua protagonista, non fanno altro che inserirlo nell'ennesimo solco che chiede di tracciare - quello di un cinema commerciale che sperimenta altre vie, magari più ricercate e ragionate - in nome della riconoscibilità e della leggibilità di un argomento così scioccante e assurdo da esserci familiare. Come ogni opera eletta a simbolo di un'epoca, Hunger Games è in realtà una forma già deteriore di quella stessa epoca, non il suo specchio o, addirittura, la sua avanguardia. Dice un sacco di chi siamo e dove andiamo, certo: ma se già lo so, e pure da anni, chi sono e dove vado, dal momento che la società dello spettacolo me lo ricorda a ogni occasione, perché continuare a tornarci sopra? La cultura popolare è così, va bene: «semplice e fruibile da tutti» come scrive Zucconi. E se da un lato in questo non ci vedo nulla di male, non mi va nemmeno di vederci qualcosa di eccezionale.
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La cosa grave del fatto che Hunger Games sia la fotocopia di Battle Royale, non è tanto che gli autori del film, e del libro all'origine, non ne abbiano mai fatto parola e sollecitati sull'argomento abbiano solamente indicato influenze e ispirazione. La cosa grave del fatto che Hunger Games sia la copia furbetta e nascosta di un film più vecchio e meno famoso (almeno qui da noi e negli Stati Uniti), è che proprio per questo motivo, per essere cioè qualcosa di già masticato e ripassato, incassi centinaia di milioni e venga percepito come lo specchio di un'epoca e delle sue passioni, dei suoi piaceri e delle sue derive. Leggo qui che al 16 aprile, prima ancora dell'uscita italiana, aveva già incassato in tutto il mondo 531 milioni di dollari, mentre già lo scorso 26 aprile Vittorio Zucconi ne scriveva su Repubblica spadellando il suo solito tono da battaglia di Okinawa, tirando in ballo l'incubo, la distopia, l'Antica Roma, Diana cacciatrice, Survivor, Victor Hugo, Metropolis, l'evoluzionismo darwinista, la riforma sanitaria di Obama, tutto lo scibile umano insomma, ché film come Hunger Games, come non accorgersene, sono lo specchio di una nazione e di una società, anche se siamo nel 2012, anche se i reality sono ormai roba di dieci-quindici anni fa e prima ancora di Battle Royale avevano già fatto The Truman Show e dopo sono venuti EdTV, Live, L'implacabile e altri che sicuramente non so, oltre a qualsiasi fantasy distopico vi venga in mente e naturalmente a Twilight, ché gli innamorati di oggi sono tutti feriti dentro e lo dicono con gli occhi molli. Hunger Games non è nulla che già non sappiamo, nulla che non abbiamo già visto e vorremmo vedere: anche il fatto che nella prima mezz'ora sia girato come un film indie, con tutti quei colori saturati, quella camera mobile, instabile, fragile come la sua protagonista, non fanno altro che inserirlo nell'ennesimo solco che chiede di tracciare - quello di un cinema commerciale che sperimenta altre vie, magari più ricercate e ragionate - in nome della riconoscibilità e della leggibilità di un argomento così scioccante e assurdo da esserci familiare. Come ogni opera eletta a simbolo di un'epoca, Hunger Games è in realtà una forma già deteriore di quella stessa epoca, non il suo specchio o, addirittura, la sua avanguardia. Dice un sacco di chi siamo e dove andiamo, certo: ma se già lo so, e pure da anni, chi sono e dove vado, dal momento che la società dello spettacolo me lo ricorda a ogni occasione, perché continuare a tornarci sopra? La cultura popolare è così, va bene: «semplice e fruibile da tutti» come scrive Zucconi. E se da un lato in questo non ci vedo nulla di male, non mi va nemmeno di vederci qualcosa di eccezionale.
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