Arrivando alla piccola guesthouse di Pemba Sherpa a Namche, 3.400 metri sul livello del mare, non è chiaro dove si trovino le stanze. Namche Bazaar è ormai un villaggio sviluppato da cui tutti i turisti della regione del Khumbu sono costretti a passare, in cui grandi hotel sono stati costruiti e dove vetrine espongono vestiti di marca, ma nonostante ciò l’albergo di Pemba somiglia ancora a nient’altro che una casa comune. Nei sette anni dall’apertura, possibile dopo aver guadagnato abbastanza con un passato da portatore e poi guida, molte cose sono cambiate, ma l’atmosfera qui rimane quella del passato. Chhing, la moglie, è intenta a fare il burro in cucina con il latte di una delle tre mucche che vivono per strada mentre Pemba, ormai settantenne, non sembra ancora stanco della solita conversazione – di dove siete, cosa fate, quanto state – con i primi clienti del giorno.
Il primo errore comune quando si parla degli Sherpa è credere che questo si tratti di un lavoro. Gli Sherpa non sono le guide o i portatori di montagna, ma sono anche questo. Quella degli Sherpa è prima di tutto un’etnia, proveniente dalla regione del Khumbu nelle altitudini del nord-est nepalese. Secondo Wikipedia oggi si trovano oltre 150.000 Sherpa nella regione e nonostante molti abbiano intrapreso la carriera alpinistica, la maggior parte vive ancora di impieghi tradizionale, prima di tutto agricoltura e la pastorizia degli yak, un’animale somigliante ad una mucca che non può vivere sotto i 3.000 metri d’altitudine. Detto questo la fama di fenomeni dell’alpinismo gli appartiene e non c’è spedizione tra le vette himalayane, in particolare quelle sull’Everest, che non possa fare a meno di loro.
È un giorno di riposo per me a Namche dopo una settimana di cammino e nonostante lo aspettassi, avendo preso il ritmo, lo stallo si rivela più noioso del previsto. “Vuoi vedere un film?” mi propone Pemba, notandomi in cerca di una distrazione nella piccola biblioteca dell’albergo. Il film, alquanto appropriato, è Everest – la scalata dei figli di Edmund Hillary e Tenzing Norgay al cinquantesimo anniversario dalla prima ascesa al mondo. Tenzing Norgay in Nepal è considerato un dio. Il primo uomo, ma soprattutto il primo Sherpa, a scalare l’Everest insieme al neozelandese Hillary nel 1953, Norgay è la leggenda che ha aperto le porte dell’alpinismo nel paese. Il film racconta la spedizione condotta da Peter Athans, che con le sue sette volte in cima all’Everest è l’occidentale che ha avuto più successo nella scalata nel mondo, ed evidenzia le differenze tra l’alpinismo di oggi e quello di una volta, quello di Hillary e Norgay appunto.
Se Tenzing Norgay ha acceso una tradizione, non è comunque una vita facile quella degli Sherpa che scalano. Prima di scalare la maggior parte di coloro che decidono, per scelta volontaria o forzata, di intraprendere questa carriera cominciano facendo i portatori. I portatori trasportano qualsiasi cosa, di qualsiasi peso, fino ed oltre al campo base. La manodopera in Nepal è ancora così economica che il trasporto di qualsiasi necessità – che siano queste provviste oppure un impianto satellitare – avviene sulla schiena degli esseri umani. Durante i trekking è comune vedere ragazzi e ragazze giovanissimi trasportare ogni tipo di peso, non solo per gli alpinisti. L’incremento del turismo ha arricchito molte persone del luogo che oggi possono permettersi di acquistare beni in passato considerati un lusso. Camminando si superano anziani che trasportano lavastoviglie, adolescenti che si caricano addosso decine di metri di cavi elettrici, e persone singole che hanno sulle spalle gli accessori di interi gruppi organizzati.
Lasciando Namche ci dirigiamo verso Lapharma. Lapharma non si può esattamente chiamare un villaggio: è una collina, in cima alla quale si trova un solo albergo. La posizione, in mezzo ai due villaggi più grandi di Dole e Machermo, significa evitare i gruppi di turisti che sicuramente si fermeranno prima o dopo. È così, siamo soli. A gestire il rifugio c’è un ragazzo giovane, troppo ben vestito per trovarsi solo, su una collina, a 4.300 metri sul livello del mare. È silenzioso, ma le pareti del ristorante in compenso hanno molto da dire. Qualcuno in famiglia è uno scalatore. Certificati su certificati raccontano di spedizioni sull’Everest, Cho Oyu, Lhotse. “È mio padre” mi spiega il ragazzo notandomi incuriosito “è stato sull’Everest! Ma ora ha smesso,” continua, “cammina soltanto..“. “Vuoi diventare anche tu uno scalatore?” chiedo, “No, no, mio padre non vuole. È troppo pericoloso. Io studio a Kathmandu, sono qui in vacanza. Vorrei diventare un calciatore“.
La scommessa migliore per uno Sherpa è proprio questa. Da portatore essere allenato e diventare una guida alpina, lavorare per due, tre o quattro stagioni, e poi fare il possibile per smettere prima che l’inevitabile incidente accada. Fare lo Sherpa è tra i lavori più pericolosi al mondo ed il tasso di mortalità rimane elevato nonostante le misure di sicurezza fornite dalla tecnologia e dalle nuove tecniche di oggi. Gli Sherpa sono sempre i primi a mettere piede sulle montagne, sono quelli che trasportano e piazzano quintali di corde a cui gli alpinisti delle spdizioni si agganceranno. Gli Sherpa testano il terreno, trasportano il cibo, l’ossigeno, preparano tutte le tende e i campeggi oltre al campo base. La gloria, nel fare lo Sherpa, è minima. Nessuno lo fa per il proprio ego, la motivazione, qui, l’unica motivazione, sono i soldi. In Nepal, paese in cui il reddito medio annuo si misura ancora nelle centinaia di dollari, riuscire a guadagnarne migliaia nei pochi mesi della stagione alpistica è un grosso incentivo. Uno Sherpa può guadagnare tra i due e i cinquemila dollari a spedizione, con le mance che arrivano in quantità se la scalata ha successo e questi soldi significano per i più poter mandare i figli a scuola a Kathmandu, e magari, in qualche anno, aprire anche la propria attività.
Il divario tra i guadagni di una guida occidentale, che superano i 60.000 dollari a spedizione, e quelli di un indispensabile Sherpa è grandissimo, ma parlare di sfruttamento non è così semplice. È facile trovarsi a pensare che l’utilizzo degli Sherpa, che svolgono il lavoro più rischioso per la paga più bassa, per le spedizioni commerciali sia un’ingiustizia, ma lo è veramente? Molti grandi alpinisti, a partire da Hillary e poi Athans, hanno fatto del Nepal la loro seconda casa per promuovere i diritti degli Sherpa, ma il problema rimane difficile da indicare con precisione. Da una parte c’è la mancanza di alternative che forza molti Sherpa a rischiare la propria vita per uno stipendio consistente che gli consentirà un futuro, ma dall’altra c’è una lavoro che per quanto sia pagato bene potrebbe sempre rivelarsi mortale e la vita un valore monetario non ce l’ha. E se, giustamente, gli Sherpa chiedono salari più alti per i rischi che corrono, tra le loro preoccupazioni maggiori si trovano anche le assicurazioni per la famiglia in caso di incidente che non sempre ricevono un indenizzo quando l’unica fonte di reddito scompare. La situazione potrebbe migliorare molto, ma la giustizia rimane un concetto astratto, in quanto misurare il valore di ciò che fanno gli Sherpa è di fatto impossibile.
Continuando a salire, dopo giorni di cammino attraverso i laghi di Gokyo e il Passo di Cho La, arriviamo all’ultimo rifugio, appena prima del campo base, quello di Gorak Shep. A meno di due ore di distanza finisce il percorso per chi cammina e comincia l’itinerario per chi scala. Qui i tavoli non sono mai abbastanza per il grande numero di persone che arrivano a fine tragitto e mi trovo a sedere con la guida di un gruppo organizzato in attesa della cena. La conversazione prende una piega particolare quando, parlando della valanga del giorno precedente, arriva un “Ho smesso appena in tempo..“. “Cosa vuoi dire?” chiedo, “Sei stato sull’Everest?“. “Otto volte fino alla cima” risponde la guida “ma adesso basta“. Ripenso al film a casa di Pemba, Everest, che ritraeva Peter Athans come l’eroe, l’uomo dei record, che ha scalato la montagna sette volte e poi guardo Tshering, la guida seduta accanto a me, bersi la sua anonima zuppa con otto spedizioni completate alle spalle. Questa è la vita degli Sherpa.