Prima di parlare di Chi ti credi di essere? di Alice Munro facciamo alcune brevissime annotazioni di carattere generale. La Munro è considerata una delle più grandi scrittrici nord-americane viventi. Secondo Jonathan Franzen la più grande in assoluto. L’autrice Cynthia Ozick l’ha denominata il Cechov del nostro tempo. L’altro autore nord-americano il cui nome è stato più volte accostato a quello di Cechov è Raymond Carver. Non è un caso. In primo luogo perché entrambi (Carver e la Munro) sono delle autorità. In secondo luogo perché entrambi sono autori quasi esclusivamente di splendidi racconti.
E qui veniamo al nostro libro. Chi ti credi di essere? (Who do you think you are? il titolo in inglese) era stato pubblicato da E/O nel 1995 ed è stato ripubblicato da Einaudi nel 2012. La traduzione è di Susanna Basso, impeccabile come sempre. È considerato una raccolta di racconti tra loro collegati. Il che potrebbe farci pensare che stiamo parlando di qualcosa simile a un romanzo. E infatti chi sta scrivendo si sbilancia in una considerazione che potrebbe far storcere il naso ad alcuni ammiratori e estimatori dell’autrice canadese; Chi ti credi di essere? è in effetti un romanzo. È la storia di Rose e della sua vita, dei suoi successi e insuccessi, dei suoi innamoramenti, delle cadute rovinose e dei momenti di autostima. Un romanzo diviso in capitoli che hanno però la particolarità di essere chiusi in loro stessi. Come dei racconti. Stiamo sofisticando forse (in fondo è un tipo di conclusione molto banale), ma è bene concludere e motivare. Una raccolta (di racconti) può essere letta procedendo in qualsiasi direzione (quasi sempre), perché non c’è un ordine lineare che lega tra loro le singole narrazioni (quasi sempre). È così per tutte le raccolte di Carver per esempio. La raccolta/romanzo della Munro invece andrebbe letta in successione; dal primo all’ultimo. Questa è l’unica precisazione importante. Ed è anche un valido consiglio per la lettura.
Le tematiche sono quelle care all’autrice canadese. Nata a sud-est di Toronto, nella regione dell’Ontario la Munro è rimasta da sempre fortemente attaccata al suo territorio d’origine. Lì sono ambientate la maggior parte delle sue storie e dei suoi racconti, lì nascono i suoi personaggi. Frammenti di quotidianità, faccende di routine, attimi presi in prestito dal lavoro sui campi, dall’ambientazione rurale, dallo scenario piatto del sud del Canada, dalla noia, dalla stanchezza. Ma dietro ciascuna di queste cose la bravura della Munro nasconde un guizzo; un realismo acuto che coglie le imperfezioni della vita, le immense sfumature poetiche dell’esistenza, anche la più banale. Il nostro romanzo/raccolta di racconti non fa eccezione. La sua protagonista è cresciuta a Hanratty un piccolo borgo poverissimo, da una famiglia umile. La vediamo impegnata nelle questioni domestiche, a scuola, mentre cerca di fare carriera. Mentre fugge e poi ritorna. E chiaramente (il topos che abbiamo evocato ci impone la considerazione) è alla fine della vicenda umana, dopo il ritorno nel paese natale, che si rifanno i conti con il proprio passato. L’ultimo racconto Chi ti credi di essere?, è quello che dà il titolo all’intero romanzo (o raccolta). E riporta la domanda che la maestra aveva rivolto un tempo a Rose. «Chi ti credi di essere?». Perché Rose era diversa, ma forse non abbastanza. O forse si era soltanto illusa di esserlo. In ogni caso la domanda, come avviene nella buona letteratura, è condannata a non trovare risposta («Chi ti credi di essere? Non era la prima volta che qualcuno glielo chiedeva; anzi, quella domanda spesso assumeva alle sue orecchie la monotonia di un gong, e Rose non ci badava più. In seguito però si rese conto che Miss Hattie non era un’insegnante sadica; si era trattenuta dal pronunciare il suo commento davanti a tutta la classe. [...] La lezione che intendeva impartirle era più importante della poesia, ai suoi occhi, ed era profondamente convinta che Rose ne avesse bisogno. A quanto pareva, molte altre persone la pensavano così»).
Dentro Chi ti credi di essere? ci sono pagine bellissime. Un romanzo delle piccole cose diviso in racconti. Ognuno riprende una vicenda della vita della protagonista. Ci sono dei personaggi autentici - il padre semplice, la matrigna rocciosa, le amiche complici, il marito insicuro e impacciato - che sembrano essere stati strappati direttamente ai ricordi e che assumono consistenza davanti ai nostri occhi come fotografie sbiadite, prese in prestito dall’album di un vecchio amico. La scrittura della Munro è sicura e solida. Procede con cura, sotto un controllo rigidissimo. Solo ogni tanto si impenna, poi torna al suo livello costante.
Ma, nonostante tutto, chi scrive non è stato mai coinvolto eccessivamente dalla lettura di questo romanzo/raccolta di racconti. È rimasto in bilico per tutto il tempo. Tra pagine struggenti e ammalianti e pagine consapevolmente piatte, fino a diventare troppo piatte. I momenti più entusiasmanti (probabilmente anche perché chi sta scrivendo è un uomo) sono quelli in cui la Munro ci lascia entrare nella complessità dell’animo femminile, nei dubbi laceranti che l’essere ragazzine e poi fidanzate, mogli e madri comporta. La scrittrice ci apre uno spiraglio e ci lascia guardare dallo spioncino mentre dentro scoppia la tempesta. E quella tempesta ha un odore deciso, che emana fuori dalle pagine. Ma non dura a lungo. Presto svanisce.
Il problema magari sta nel fatto che questo romanzo è in realtà una raccolta di racconti camuffata. O forse che questa raccolta di racconti è un romanzo un po’ segmentato. In ogni caso un libro della Munro non è mai una lettura che si rimpiange di aver fatto. Questo no. Decisamente no.
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