Sono gli “uomini Domopak” che non vuole nessuno. Il caso ha voluto che il confine ligure (ma potevano essere anche altri confini) diventasse simbolo dell’inveterata solidità che le pareti divisorie tra stati mantengono anche quando i capi di Stato interessati sanno sviolinare all’occorrenza parole magiche di cooperazione, solidarismo, libera circolazione tra popoli. Poche settimane prima di questo fatto la casa Editrice Skira aveva forse intuito che i tempi erano maturi per riversare sugli scaffali delle librerie alcuni scritti datati di Stefan Zweig, scrittore austriaco morto suicida nel lontano (ma non troppo) 1942. Il titolo della raccolta è “Appello agli europei”. Si possono rinvenire in questi scritti parole accorate che in forma elegante, e non prive di retorica, come si conviene allo scrivere di quei tempi, danno voce alla nobile aspirazione verso un’Europa finalmente unita; riporto alcune sue parole dove rappresenta l’aspirazione all’unificazione come: “il misterioso eros che fin dai primordi spinge l’umanità verso un’unità superiore, oltre ogni differenza di lingua, cultura, idee.
Era l’atto di nascita morale di quel processo verso l’Unione europea, mentre già si provava a scriverne il testamento con le guerre mondiali che avrebbero dilaniato l’Europa e il mondo. Scrive Zweig parole incisive dove più volte ripropone il paragone biblico tra l’edificazione di un’Europa unita e la torre di Babele: la costruzione segna un rinata armonia fra i popoli e la successiva distruzione getta in frantumi l’opera comune riportando i popoli ad una primitiva brutale contrapposizione. Queste le sue parole: “.. forse passeranno anni prima che i fratelli d’una volta, in una sfida pacifica, puntino di nuovo all’infinità dell’universo. Eppure dobbiamo tornare alla costruzione, ognuno al posto che ha lasciato nel momento dello smarrimento .. non deve essere l’orgoglio del singolo popolo, la consapevolezza di sé amplificata dalla razza e dalla lingua, bensì l’antico progenitore, il nostro spirito, identico in tutte le forme di tutte le leggende, il costruttore anonimo della torre di Babele “.
Gli anni sono passati e come Zweig aveva descritto nei suoi scritti è accaduto che quei due impulsi storici antitetici, di attrazione e ripulsa nei confronti dell’unificazione, si sono contesi il campo a più riprese, a volte prevalendo l’uno a volte l’altro. Gli anni sono passati e in questi giorni l’impulso ad arretrare si è fatto valere non poco. Mentre paradossalmente assistiamo a un’Europa puntuale nello stabilire uniformi diametri per le zucchine o i pomodori, o nel fare circolare merci e denaro tra gli stati membri, la cosa si complica per gli esseri umani che a differenza di merci e denaro appaiono dotati di gambe per circolare e solo apparentemente in questo facilitati dalla natura. Al confine tra Italia e Francia in questi giorni il transito è molto rallentato. Il primo controllo riguarda il colore della pelle: i bianchi passano di default (come hanno verificato sul campo alcuni giornalisti passando più volte), i neri vengono tutti fermati e proseguono solo se hanno il passaporto in regola se no il viaggio finisce. Se tutti i viaggiatori fossero fermati per questi controlli sarebbe una palese violazione degli accordi di Schengen, quindi si preferisce questa scrematura razziale poco edificante per salvare il nome di un trattato che oggi è solo un involucro vuoto di buone intenzioni perse per strada. La Francia non vuole accogliere i clandestini che l’Italia invece accoglie solo perché la geografia non le lascia scelta. Così la scelta rimane solo a chi la natura ha dotato di barriere naturali per erigere sbarramenti. Una realtà affidata alle leggi di natura più che della civiltà. I paesi che dovrebbero cooperare civilmente si sbattono in faccia statistiche sul tasso di integrazione che già sopportano per dimostrare che qualcuno sopporta meno di loro. Alle statistiche si risponde con statistiche e si dice che i tassi vanno computati tenendo conto non solo della consistenza numerica della popolazione, ma anche delle risorse complessive disponibili in un paese. Così non si va lontano. I nostri vicini francesi erano molto più pragmatici e tolleranti quando meno di un secolo fa arruolavano africani a frotte dalle loro colonie per mandarli a combattere i tedeschi. Allora non erano mai troppi gli africani da spedire al macello, e oggi la memoria zoppica quando i ricordi sono scomodi. E anche l’Italia ha, sebbene di diversa natura, ricordi scomodi che non ama. Immersa in questo oblio della memoria l’Europa si divide sperando di occultare la colpa della propria inerzia volontaria nel pulviscolo della sua disgregazione, come se il disaccordo non fosse un aggravante dell’incapacità dei singoli di trovare individualmente una soluzione. Un po’ come il tipo che si ubriaca scientemente e poi invoca l’incapacità di intendere e volere per i crimini commessi in stato di ubriachezza. E’in corso una generale ubriacatura che funge da anestetico e da disonesta copertura per una volontà precisa che si vuole attuare, ma di cui non si vuole rispondere pienamente. I paesi ubriacati di nazionalismo barcollano. Ognuno va per conto suo verso una crisi mondiale che di fonte ai rimedi individuali si gonfierà a dismisura. E’ evidente che quando un paese di una comunità più ampia per scelta decide di andare per conto proprio cela nel fondo del suo reale e inconfessato sentire la convinzione di non avere alcun vantaggio dalla cooperazione e preferisce contare sulle sue proprie forze. Tutti i nazionalismi si alimentano di questa convinzione e gonfiano il petto. “Il nazionalismo –dice Zweig- può contare sull’insegnamento, l’esercito, l’uniforme, i giornali, gli inni le insegne, la radio, la lingua, gode della protezione dello stato e fa vibrare le masse ….se non siamo in grado di suscitare lo stesso entusiasmo riguardo alla nostra idea … le nostre idee resteranno vane”. Forse un sentimento così radicato richiederà molto, molto tempo, più di quanto l’urgenza delle attuali emergenze sia disposta a concederci.