di David Incamicia
Il fine settimana appena trascorso è stato scandito da diverse forme di protesta contro Berlusconi e il suo governo, sempre più immersi negli scandali, non solo sessuali, e impegnati in una guerra senza quartiere alla magistratura e verso le regole proprie del nostro assetto costituzionale. Due, in particolare, le iniziative che hanno attirato l'attenzione di media e politica: il grande raduno milanese di Libertà & Giustizia, promosso da intellettuali liberali del calibro di Umberto Eco, Gustavo Zagrebelsky, Roberto Saviano e Gad Lerner, e la manifestazione ad Arcore del cosiddetto Popolo viola.
Tra esse, la prima mi ha particolarmente impressionato. Nella sala del Palasharp di Milano sedevano circa quindicimila persone (altre migliaia erano sistemate all'esterno sotto gli altoparlanti), accorse non solo dalla Lombardia, che con lo slogan Per un'Italia più libera e giusta hanno ascoltato la lunga e pacata riflessione, non per questo inefficace e incapace di colpire al cuore, delle personalità succedutesi sul palco. E a fare da cornice non una bandiera rossa o viola o un vessillo di partito, bensì tanti fieri Tricolori.
Il clima che si respirava era in effetti risorgimentale e, come molti commentatori hanno già avuto modo di osservare, quell'appuntamento ha segnato la "discesa in campo" forte e definitiva della borghesia nazionale laica e illuminata. Di quelle sensibilità, cioè, che hanno resistito alla deriva morale e culturale del Paese decidendo di non rifugiarsi all'estero per restare a combattere. Non è un caso che in molti degli interventi ascoltati si sia fatto appello ai tanti connazionali, specialmente ai giovani, che invece hanno lasciato l'Italia portando altrove il proprio talento. Affinchè rientrino a dar man forte a quella parte di società tumultuosa e frustrata che stenta a piegarsi al corrotto presente.
Sono fra quanti non amano il berlusconismo e ritengo, al pari di molti, che esso non sia la fonte di tutti i nostri mali ma li abbia semplicementi legittimati e resi "degni", facendo innanzitutto leva sull'uso distorto dell'informazione e dei sistemi di comunicazione in genere e sulla capacità di questi di influenzare in modo subdolo le coscienze dei cittadini. Allo stesso tempo, credo che l'antidoto a tale degrado non sia più la politica, intesa come attuale sistema di partiti assuefatti e deboli sul piano valoriale, ma occorra solleticare l'orgoglio civile di quei segmenti della società maggiormente avveduti e informati. Orgoglio che va ridestato attraverso un più deciso impegno civico e culturale delle élite.
Chi obietta a questa tesi sostenendo, in maniera strumentale, la supremazia della volontà popolare nel gioco democratico non fa il bene del Paese. E del popolo stesso. Ho appena finito di leggere l'ottimo saggio "La pancia degli italiani", di Beppe Severgnini, dove emerge nettamente a cosa bisogna riferirsi quando si accenna, da parte della politica tutta e di Berlusconi in particolare, al popolo. Esso rappresenta innanzitutto il corpo elettorale, colle sue molteplici debolezze umane, e pertanto va tranquillizzato e assecondato negli istinti e nelle paure, nei limiti e nelle astuzie, anzichè "governato" e guidato. Viene così meno la funzione educativa e "pastorale" della rappresentanza istituzionale. E' un po' come per il commercio delle sigarette: io Stato so bene che se tu cittadino fumi ti esponi a gravi rischi per la salute, ma mi limito a un fugace pro memoria sul pacchetto di sigarette che però potrai continuare a vedere esposto in bella mostra al banco del tabaccaio e decidere di acquistarlo.
Magari l'esempio è il meno calzante e rischia di apparire come subordinato a una logica proibizionista, ma il messaggio subliminale è il seguente: se tu che stai in alto non me lo vieti, allora posso. E per di più senza dover dopo subire i sensi di colpa. Meccanismo psicologico che da qualche tempo vale anche per le tasse, per le piccole o grandi furbizie quotidiane, per il rapporto fra elettore ed eletto. E' la "pancia" che chiede, è ad essa che bisogna rispondere. In ossequio a un tipo di legame consapevolmente utilitaristico che risale alla notte dei tempi e deriva, forse, dall'assenza di una identità originale nella nostra formazione culturale. Dunque, conviene davvero che a determinare le sorti di una Nazione, a livello di vita sociale come nelle istituzioni, non siano la ragione e il buon senso ma gli istinti, spesso anche i più bassi? La mia risposta è no.
Ma per rendere una volta per tutte inefficace questo perverso intreccio fra potere e "sudditi", occorre appunto ampliare la sfera della consapevolezza. Come? Affidandosi a una minoranza capace. La storia insegna che ogni rivolgimento sociale o culturale è stato frutto dell'azione di pochi, anche a costo di temporanei - talvolta necessari - commissariamenti del normale corso democratico. Non può definirsi, infatti, democrazia matura quella fondata sull'ignoranza, naturale o indotta. Men che meno può definirsi progresso un informe e imperfetto concetto di benessere - meglio sarebbe dire di "quieto vivere" - che non tenga conto di una sorta di processo di selezione spontaneo e meritocratico nella società stessa.
Ragion per cui considero più opportuna ed utile, oggi, una battaglia contro il decadentismo in salsa berlusconiana condotta non dalle masse (da noi non esistono nè aspirano ad esistere) più o meno soggiogate, bensì da porzioni comunitarie anche ristrette ma disposte a immolarsi per la redenzione collettiva. In buona sostanza - ed è questo il significato primo di "chiamate alle armi" come quella di sabato scorso di Libertà & Giustizia, temute dal Palazzo assai più che i cortei rossi, viola, black block o arcobaleno (anche la violenza necessita di razionalità) -, l'unico "popolo" che può rimettere sulla giusta via il percorso nazionale è un popolo ridotto a sole talune categorie sofferenti - come ad esempio gli studenti, gli operai, i cervelli "espatriati" - purchè pronte ad insorgere e risorgere sotto la direzione sapiente della borghesia onesta del Paese.
Non si tratta di una visione reazionaria ma certamente aperta, che recepisce fino in fondo la massima gandhiana sulla libertà: "Non vale la pena avere la libertà se questo non implica avere la libertà di sbagliare". Un errore, tuttavia, ha senso ed è accettabile solo nella misura in cui può essere corretto. Altrimenti è oblio, perdizione, e sovente sfocia nella dittatura. L'auspicio è che l'Italia migliore, quella fino a ieri silente e distratta, quella più consapevole emarginata dal fango del potere e dall'ignavia della plebe, quella "fuggita" all'estero perchè senza speranza nel futuro, ricomponga la propria diaspora e dia presto vita a un enorme moto di orgoglio repubblicano. Sopperendo all'assenza dei partiti e assumendosi la responsabilità di decidere anche per chi non è nelle condizioni di leggere e comprendere i fenomeni.
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