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Il Decano di zona lo rividi ancora diverse volte, nel corso dei secoli. Era suo compito passare periodicamente a verificare i progressi dei fantasmi di nuova nomina, ma quando veniva da me faceva una smorfia di desolazione:
“Muri? Catene? Ancora niente?”
E se ne andava.
Io come fantasma mi arrabattai. L’unica facoltà che possedevo era l’invisibilità, che mi permetteva però di prendermi qualche soddisfazione. Potevo parlare ad alta voce, cantare, imprecare, senza che nessuno mi sentisse. Potevo entrare dappertutto purché qualcuno lasciasse aperta la porta, e nessuno mi vedeva. Non sapevo volare ma mi spostavo a piedi, oppure su un carro o in groppa a un cavallo senza che né il carrettiere né il cavaliere dietro cui salivo in sella se ne accorgessero. Non avendo più la necessità di dormire, potevo aggirarmi ovunque di notte come di giorno senza disturbare o spaventare le anime sensibili. Che poi ero rimasto lo stesso di prima, ossia troppo sensibile io stesso per fare di questi macabri scherzi.
Per lunghissimo tempo soggiornai nella quiete dell’Abbazia. I monaci leggevano, scrivevano e salmodiavano, e io ebbi tutto il tempo per imparare a fare altrettanto. Il loro gregoriano era un’onda di misticismo così sublime che mi commoveva, e ancor più quando partecipavo al coro io stesso, accoccolato ai piedi del priore con le lacrime agli occhi. Lacrime di fantasma, e occhi pure, si intende.
Dai monaci imparai anche a leggere e a scrivere. Loro lo facevano solo di giorno, ma io potevo continuare anche la notte, perché non avevo bisogno di candele né avvertivo il freddo pungente d’inverno. Lessi l’intera biblioteca, imparai il latino, il greco, l’ebraico e il sanscrito. Conobbi anno dopo anno tutta la cultura disponibile in quel periodo di amanuensi che si sarebbe chiamato Medioevo, e fu un modo straordinariamente dolce ed esaltante di far passare un infinitesimale frammento dell’eternità che mi era stata predetta. La lunghezza infinita della mia pena mi concedeva se non altro un incommensurabile vantaggio sul Tempo: ne avevo quanto ne volevo e potevo farne uso e abuso senza temere di restarne sprovvisto. Lo investii dunque in un’attività che sembrava promettere molte gratificazioni allo spirito, e io cos’ero infatti se non uno spirito?
Così mi specializzai in biblioteche.
Non c’è posto al mondo più quieto, raccolto e suggestivo di una biblioteca. Nemmeno una chiesa è così vicina alla purezza, perché in essa, poco o spesso tanto, circolano denaro e favori, ipocriti e farisei, falsi pentiti non ne parliamo. In biblioteca invece si entra a cuore umile e disposto alla conoscenza, si depongono fuori armi e vanagloria e ci si accosta alla grazia suprema del Sapere con l’animo assetato di pace.
Non si contano, le biblioteche che ho visitato. In ognuna mi fu facile ambientarmi e dissimularmi, vi era sempre qualche pertugio o magazzino o nicchia in cui stabilire il bivacco preferito delle mie scarne membra virtuali. Il silenzio e la devozione rendevano uguali tutti i frequentatori indistintamente, si trattasse di canonici o di studiosi, di aristocratici o di umili studenti. Per ognuno, una sedia, un tavolo, un libro e l’obbligo di chinare il capo alla Regola del Rispetto per la Concentrazione altrui, cosicché l’ignorante può permettersi di fulminare con lo sguardo il sapiente cui è sfuggito un colpo di tosse. Dai finestroni ho visto mutare le stagioni, e ho colto i segni del Tempo in ogni crepa nuova, nuovo sgretolamento. Ho assistito impotente a crolli, incendi, saccheggi, disperati tentativi di salvataggio dei tesori cartacei, abbandoni, esodi. Quando una biblioteca moriva, mi mettevo in viaggio – a piedi, a dorso di mulo, sui carri dei mercanti – per raggiungerne un’altra e riprendere le mie letture interrotte. Nel corso dei secoli non ho fatto che inseguire libri, o forse erano loro a inseguire me, ma in ogni caso ci si arrendeva l’uno agli altri con profondo trasporto. Sono stati i libri e gli scaffali delle biblioteche, i muri sublimi della mia prigione di fantasma, le mie amatissime sbarre. Io, il piccolo Brian senz’arte né parte, troppo brevemente in vita per capirne il senso, nella mia non richiesta condizione di entità invisibile avevo trovato l’unico dialogo possibile, quello con la parola scritta tramandata da chi della vita aveva cercato di cogliere il nocciolo e ne aveva lasciato la possibile soluzione a quanti, venuti dopo, si tormentassero ancora a inseguirla. Ero circondato da voci vive di uomini morti, il passato e il futuro si intrecciavano insieme tra quelle pagine di tentativi, sogni e bestemmie cui l’Uomo ha affidato la memoria di sé e di tutti.
A cosa servisse tutto questo, ecco la mia domanda. Ad arricchire me stesso, non v’è dubbio, e dacché ero solo e smarrito nel Mondo di Mezzo poteva e doveva anche bastare. Ma qualcosa della mia solitudine da vivo mi era rimasta nelle pallide vene, e mi faceva continuamente rimpiangere il dono non concesso di dividere con qualcuno il patrimonio della mia anima. Non mi era sufficiente assistere alle dispute dei sapienti, che nelle biblioteche confrontavano le loro tesi discutendone con fervore e aggiungendo insospettati e fruttuosissimi argomenti. Erano momenti di grande interesse, non lo nego, ma non mi procuravano il calore e la commozione di una condivisione diretta, di un rapporto personale, occhi negli occhi, cuore in mano. Avrei voluto la parola, la materia, per poter alimentare la mia febbre di sapere con quella di un altro, per scambiare con lui a viva voce emozioni, domande, scoperte.
Questo non mi era dato. Fra me e il mondo dei viventi esisteva un velario invalicabile, che continuava a rendere oscura e inutile la mia esistenza anche nella inconsistente dimensione degli spiriti.
Poi, qualche mese fa, conobbi Susan.
(terza e ultima puntata in preparazione, ocio)