La filosofa collabora con Il Corriere della Sera, dove è recentemente stata recensita la sua ultima fatica dedicata all’aborto. La missione che si è data è molto suggestiva: dopo l’eutanasia come “dolce morte”, ora è il momento di far passare anche l’idea dell’“aborto dolce”, tentando di normalizzare l’interruzione di gravidanza ad un banale intervento medico, una sorta di estrazione delle tonsille. Scrive: «Voglio esplorare una possibilità teorica che si possa scegliere di abortire, che lo si possa fare perché non si vuole un figlio o non se ne vuole un altro, che si possa decidere senza covare conflitti o sensi di colpa». La frase è agghiacciante, anche perché non si parla del feto umano come un agglomerato di cellule, ma proprio di “figlio”. Una lucida e consapevole ammissione di cosa è la soppressione di individuo umano, accettata con tranquillità.
In un intervento del 2005 anche lei è caduta nella fallacia utilitarista del considerare “persona” soltanto il soggetto che presenta «stati mentali coscienti e una pur rudimentale capacità di autocoscienza», quindi, ha concluso, «è abbastanza inverosimile attribuire all’embrione – sebbene umano e geneticamente irripetibile, e sebbene potenzialmente personale – queste caratteristiche». Se la Lalli avesse ragione, allora sarebbe lecito teorizzare l’infaticidio, come hanno fatto i ricercatori Minerva e Giubilini, responsabili della Consulta di Bioetica Laica, dato che nemmeno il neonato è dotato di coscienza e autocoscienza, così come centinaia di disabili e malati gravi. Embrioni, neonati e disabili apparterrebbero tutti alla non ben definita categoria degli esseri-umani-non-persone, ovvero individui che è lecito eliminare in quanto esseri umani privi diritti giuridici.
Tornando al nuovo libro della Lalli, la ricercatrice ha impostato il suo lavoro attraverso interviste a donne contente di aver abortito (selezionate in che modo? estranee? sue amiche?) e sopratutto ha tentato di confutare l’esistenza della cosiddetta Sindrome Post Aborto (PAS), il disturbo prevalentemente psichiatrico che insorge frequentemente dopo l’aborto e che rimane costante fino a quando viene elaborato, o si aggrava all’aumentare di altre esperienze traumatiche. Secondo la recensione de Il Corriere, la Lalli ha cercato di demolire l’esistenza di tale disturbo tramite alcuni studi. Il primo è quello del 2012 realizzato dall’American Pubblic Healt Association Meeting, che però ha valutato le donne soltanto entro la prima settimana mentre sappiamo che il “disturbo post-traumatico da stress” insorge solitamente tra i tre e i sei mesi successivi all’aborto, come ha spiegato la psicologa e psicoterapeuta Cinzia Baccaglini, tra le massime esperte italiane.
E’ stato poi citato il lavoro di Nada Logan Stotland, che però è in realtà un semplice libro intitolato “The Myth of the Abortion Trauma Syndrome” (la Stotland è inoltre una abortista convinta, come si evince dai suoi articoli sull’Huffington Post), e di quello realizzato negli anni ’90 da Brenda Major (e altri), dove però -al contrario della Lalli- si riconosce l’esistenza di disturbi post aborto, seppure in bassa percentuale (inoltre, il 72% del campione analizzato ha riportato dei danni dall’aborto, seppur minori dei benefici). Probabilmente verranno citati altri studi, ma quasi certamente (pronti ad essere smentiti) nel libro non si parla della revisione sistematica realizzata nel 2008 e pubblicata su Contraception (rivista americana considerata schierata in versione pro-choice), la quale, valutando tutti gli studi tra il 1989 e il 2008, ha rilevato che quelli di scarsa qualità e con metodologia più difettosa erano proprio quelli che negavano l’esistenza di un legame tra l’aborto e una peggior salute mentale.
Probabilmente (pronti ad essere smentiti) la Lalli non ha nemmeno citato l’infinità di studi scientifici che dicono proprio l’opposto della sua tesi, i quali dimostrano quanto l’aborto possa danneggiare la salute mentale delle donne. Sul nostro sito web abbiamo raccolto in un dossier molti di questi studi: citiamo, come esempio, lo studio del 2008 pubblicato dal British Journal of Psychiatry, dove si evidenzia un “moderato” aumento di disturbi mentali per le donne che hanno avuto aborti indotti. Nel 2011, sempre il British Journal of Psychiatry ha cambiato idea dopo aver analizzato la più grande stima quantitativa dei rischi per la salute mentale associati all’aborto disponibili nella letteratura mondiale. Verificando 22 studi e 877.181 partecipanti si è arrivati a questa conclusione: le donne che hanno subito un aborto presentano un rischio maggiore dell’81% di avere problemi di salute mentale e queste informazioni devono essere comunicate a chi fornisce servizi per l’aborto. Presupponiamo che Chiara Lalli non sarà d’accordo con il British Journal of Psychiatry, ma questo probabilmente non interesserà ai ricercatori inglesi. Nel 2008, perfino il Royal College of Psychiatrists ha abbattuto la missione dell’”aborto dolce” mettendo chiaramente in guardia, come riporta il Time, sul fatto che «le donne possono essere a rischio di problemi di salute mentale se hanno aborti», e addirittura che «non dovrebbe essere consentito di avere un aborto fino a quando non vengono valutati i possibili rischi per la loro salute mentale».
La questione dunque è ampiamente aperta e il lavoro della Lalli -almeno così come viene presentato da Il Corriere della Sera- appare viziato da un bias ideologico e ben poco scientifico.