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Chiara Moscardelli – Volevo essere una gatta morta

Creato il 14 luglio 2011 da Margheritadolcevita @MargheritaDolcevita

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Il titolo è perfetto. Acchiappazitella, va detto. E quindi ha acchiappato pure me, zitella, nonostante non conoscessi nulla dell’autrice e del romanzo. Comprato a scatola chiusa a causa del titolo. Pensate, cosa può fare un bel titolo. E dire che io non ho mai voluto essere una gatta morta, e non lo voglio manco ora.

Il libro è molto carino, se non fosse per le ultime tre pagine infarcite di un buonismo color miele Ambrosoli che rovinano l’atmosfera creatasi precedentemente. I ringraziamenti ci sono alla fine del libro, ma l’autrice li ha pure anticipati, diciamo così, nelle ultime pagine del romanzo vero e proprio: sacrosanto, essendo un romanzo fortemente autobiografico, però insomma a me non è mica piaciuta come cosa. Anche perchè, come dicevo prima, io l’autrice mica la conosco, e mi è sembrato che volesse ritagliare anzitempo uno spazio solo per lei e i suoi amici… e io?! Mi sono sentita esclusa. Buonismo + senso di esclusione = not good, no buono.

Il resto del romanzo invece è grazioso, divertente, ironizza sul modello di zitella dei giorni nostri per eccellenza, Bridget Jones, approfondisce gli istinti omicidi verso Cenerentola (e chi non le tirerebbe due schioppettate nel didietro?) e narra tutta una serie di improbabili sfighe e disavventure, in giro per il mondo con amici, improbabili fidanzati e lavori al limite del paranormale. E’ molto italiano, ed è un bene, perché non tenta di fare il verso ad altri romanzi stranieri capisaldi del genere.  A volte si ha l’impressione che siano solo i nomi dei personaggi e delle città ad essere italiani, mentre tutto il resto è frutto di intensa imitazione di stili di vita e di modelli stranieri. Del tipo, mi chiamo Rosalia, vengo da Palermo ma vivo a Milano però mi piace fare l’eppi auar sulle mie gimmi ciù flertando con Salvatore che fa il top reschiù internescional bisnes menager e beve solo concentrati di sedano, carote e ceole (citazione molto colta).

Non sono d’accordo su una cosa però: l’autrice dire che soffrire per amore è orribile, ma non soffrire affatto per amore è peggio. No cazzo non sono d’accordo. Non soffro per amore da esattamente due anni e nove mesi e sto una meraviglia da quel punto di vista. Già la vita fa abbastanza schifo, già si soffre pur non andandosele a cercare, evviva la non sofferenza in amore. Anche perchè io sono convita che il 95% delle pene d’amore sia assolutamente preventivabile e quindi scansabile. La cosa migliore nella mia vita ora è il non soffrire per amore: la rassegnazione che l’UDMV non mi vorrà mai è fantastica, azzera ogni possibile piagnisteo, perchè si sa che si soffre fino a quando un lumicino di speranza resta acceso (il problema è che sto cazzo di lumicino lo si alimenta un po’ troppo e poi infatti si piagne, si soffre, ci si dispera). Insomma c’ho di meglio da fare nella vita che piangere per un uomo.

Eppoi non mi piace l’idea che la sofferenza serva per sentirsi vivi (non c’entra niente con il romanzo, ma è una postilla che mi è venuta in mente or ora). Ma soffrite voi, scusatemi eh. Io per sentirmi viva non ho bisogno di soffrire, ci sono centinaia di cose che mi fanno sentire viva senza per questo soffrire. Se per sentirvi vivi dovete soffrire siete degli incurabili masochisti e non siete mica dei chili, secondo me.

 



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