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chiasso delle misure

Creato il 24 ottobre 2010 da Vivianascarinci
>fotografia   >prosa

Tre didascalie da Storie quasi vere  

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chiasso delle misure
C’è un gruppo di oggetti che non appartiene a nessuno. Un gruppo di oggetti che per la verità pare refrattaria ad appartenere ad alcunché, come se cammin facendo avessero perso l’anno di fattura, il made in qualche  paese lontanissimo o di questi paraggi. Eppure sono oggetti di sempre, familiari, soliti, più e più volte visti nelle mani di qualcuno, visti nei suoi cassetti, riposti, nascosti, disposti. Non che ci si fa tanto caso prima, da dove vengono, se in dono, se dati, se prestati, se comprati per via di qualche necessità, per consolarsi, perché sembravano belli e non lo sono. Né si saprà mai per dove sono passati prima di arrivarti sotto il naso a non significare niente se non le mani, se non l’aria intorno, se non l’intenzione di chi ne ha pensata distratto o no la loro esistenza in casa. Fatto sta che eccoli aver perso impiego e qualifica per il solo fatto di appartenere a chi non c’è più. Non appartenere è un problema. Non sono nuovi quindi non li puoi fingere senza una storia loro e impiegarli nella tua, perché si tireranno sempre appresso quello che non sai dei loro precedenti e inquineranno il presente di non so quanta nefasta gelosia, quante mancate memorie, quanta, quanta mancanza. Magari sono vecchi, stanno a indicare snodi che si sono persi nella notte ancora più notte di questa qua fuori. Magari sono nuovissimi, ancora incellofanati ma così smaccatamente pensati dall’assente da essere irrecuperabili a qualsiasi presente. Magari non sono tanto vecchi e possono essere regalati come si regala un ricordo finto, che non è quello che hai tu, né quello che ha chi riceve imbarazzo quella cosa, cosa che gli dice solo che chi ne era il padrone ora non lo è più e lui padrone di quell’oggetto non sarà mai. E non tutti insieme si ammucchiano, non subito. A parte all’inizio, che si fa mucchio un sacco di roba senza nome, vuota, insensata, che non sai che farci, che non ti va di guardare, che non vorresti avere, che ti fa vomitare, come a me la morte sempre mi fa quando mi capita di vederla dentro le cose che non sono più di nessuno]

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chiasso delle misure
Giorno dopo giorno salta fuori come il più insulso dei conigli del più surreale dei cilindri, un oggetto. Una penna che ti incaponisci a ricaricare e con cui mai e poi mai scriveresti una riga. Un tagliacarte con una raccapricciante zampa di animale per manico che ti fa a senso solo al pensiero che quella zamba una volta camminava. E nemmeno le case si salvano dal non appartenere se uno chi ci viveva non c’è più, pure che tu ci continui a vivere. Tanti anni fa per un po’ ho provato a vivere in una casa che non mi voleva, penso perché eravamo partiti in due a viverci e poi sono rimasta da sola e da me sola, almeno quella casa lì, non c’era verso che si facesse abitare. Così mi si è chiarita la teoria della rivolta dei vani e degli oggetti abituati a certe mani a certa gente che sparendo li svuota. Quella casa, il modo in cui mi si ribellava difficile dimenticarselo. Avevo deciso di devolvere una stanza  a tutti gli oggetti che non erano più di nessuno, perché neanche guardarli era possibile figurati usarli. Io non ci entravo mai. Tuttavia le giornate continuavano a essere puntinate di ritrovamenti. Apparivano oggetti che non sapevo esistessero, oggetti di una persona che non sapevo chi fosse e anche se quando c’era pensavo di saperlo chi era. Ma tutti quei ritrovamenti negavano fosse mai esistito quella persona che conoscevo. E di fatto non esisteva più né quello che governava le superfici delle cosa, né quello che ne minava di nascosto l’impianto. Non solo oggetti, compariva anche gente per telefono. Gente che conoscevo appena o per niente che mi telefonava per dirmi cose che facevano irruzione in quel corridoio in cui c’era il telefono e  me in piedi e quelli a dirmi  fatti che secondo loro mi riguardavano e che lì dove ero sempre vissuta io, proprio non c’entravano. Ed era il telefono a farceli entrare. E quella casa non mi difendeva. Prendeva della voce di ognuno di quelli al telefono. Quello che mi dicevo, quello che pensavo sottoforma di elaborata spiegazione del caos che mi stava travolgendo finiva per confondersi quando ero seduta sulla sedia di cucina o per terra all’angolo tra due pareti in modo che niente mi sorprendesse alle spalle, e mi tirasse sotto]

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E sono andata in affitto in una casa ammobiliata. Oltre al mobilio c’erano anche degli coinquilini in dotazione. Anzi coinquiline. Tre ragazze poco più giovani di me con le loro cose da per tutto più il mobilio di Ettore che quella casa la subaffittava in nero. Lì stavo bene, le cose di Ettore erano innocue. Nella stanza dormivo nel letto in cui aveva dormito Ettore, sedevo alla scrivania di Ettore, la sera, guardavo un pezzetto infinitesimo di cielo dal balcone di Ettore. Ma io Ettore non l’avevo mai visto, passava a riscuotere l’affitto che ero sempre a lavoro. Pensare che prima di me un sacco di altra gente aveva fatto le stesse cose che facevo io con la roba di Ettore mi rassicurava, come se ogni cosa addirittura il cesso di Ettore fosse aperto a una continuità esaltante infinita per quanto merdosa. Poi mi sono ammalata e Paula mi preparava minestrine con il pentolino di Ettore. Poi è arrivata mia madre, credo l’abbia chiamata Paula e ha detto Basta così. Sono tornata a casa. Mi sono rimessa e ho pensato Tanto vale che mi riappropri di casa mia. Ho fatto ridipingere le pareti, ho comprato le locandine di film che mi piacevano e ho aperto la stanza delle cose di nessuno. Poiché ormai certa che ci fosse solo merda ho fatto, senza neanche guardare, un gran falò. Ho preso il letto a due piazze e l’ho accostato al muro come si fa per i letti singoli e credo che questa sia stata l’offensiva decisiva. La sera prima di addormentarmi invece che pensare al finto annegamento di Holly Hunter nella penultima, forse, scena di Lezioni di Piano: lei fluttuante ancorata al suo pianoforte sperduto in qualche remoto fondale della Nuova Zelanda, pensavo a quanto bello fosse il culo di Harvey Keitel e poi canticchiavo mentalmente, come si contano le pecore per addormentasi Portami il girasole che io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino e mostri tutti i giorni agli azzurri specchianti del cielo l’ansietà del suo volto giallino …e mi addormentavo davvero. Un giorno tornando con la spesa ho trovato una scia di terra che dal portone arrivava al mio piano. Appoggiato alla porta di casa, c’e un girasole alto come me, ma non quelli che si comprano dal fioraio, uno con le foglie un po’ bruciate e un fiore grande come una padella e con tutta la zolla e le radici di fuori. Io so chi ha porto il girasole anche se non c’è stato modo di farlo confessare restando così la cosa in sospeso e l’ennesimo ritrovamento da imputarsi a casa mia]


Filed under: viviana scarinci Tagged: fotografia, racconto breve, viviana scarinci

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