E’ il 1971. Puccio Sboto, pianista, vibrafonista, fisarmonicista, importante figura del jazz italiano del dopoguerra, sta provando prima di un concerto, a Roma. Un brano di Gillespie, tanto per sciogliersi, ma subito si sente raggelare: alle sue spalle, un sax sta improvvisando sul tema di Gillespie, ma non è un sax qualunque, ha un suono inconfondibile, quello di Bird, di Charlie Parker. Sboto si gira e vede, accovacciato sul bordo del palco, un quattordicenne paffutello, faccia da simpatica canaglia, che si contorce in simbiosi con la musica che sta suonando. Il suo nome è Massimo Urbani, romano di Monte Mario, autodidatta, cannibalico divoratore di Parker e Coltrane e di qualsiasi altro maestro gli capiti sotto mano; non solo sax e non solo jazz, ma anche Davis, la bossanova e Hendrix.
L’anno successivo entra nell’orbita di Gaslini che aveva appena inaugurato i corsi di Jazz a Santa Cecilia. Massimo ci entra come uditore senza l’obbligo di frequenza, ma tale è l’impressione destata che il maestro se lo porta dietro per un giro di concerti. Nel frattempo, collabora con Mario Schiano, pioniere del free jazz italiano, per una serie di concerti e la prima incisione, Sud. Tra la fine del ’73 e l’inizio del ’74 segue gli Area a Milano, reduci dalla loro opera prima, Arbeit macht frei, ma non ci si trova e abbandona, prima che inizino le registrazioni dell’atonale e dissonante Caution Radiation Area. Intanto, partecipa a numerose incisioni, in particolare per la collana Jazz a confronto dell’etichetta Horo, con Gaslini, Schiano e Rava. Nel numero 13 della collana esordisce come leader in trio. Enrico Rava lo prende come sax contralto nel suo quartetto con Nestor Astarita e Calvin Hill e nel ’75 suonano in America. Suona anche nell’album Chiaro di Loy & Altomare, duo country-rock di discreto successo all’epoca.
Ma un altro incontro, destinato a segnare tragicamente la sua vita, avviene in quegli anni: l’eroina. Inizia a fare ritardi, a non rispettare gli impegni. Perde l’aereo per gli Stati Uniti e raggiunge New York il giorno dopo, da solo; Rava lo preleva nel commissariato dell’aeroporto, fermato per le intemperanze da ubriachezza durante il volo. Nella Grande Mela, sparisce per un paio di giorni, finché non viene ritrovato su una panchina a Central Park. Massimo è un astro nascente, di lui si parla a livello internazionale; davanti a lui, una carriera straordinaria. Ma il vortice dell’eroina lo fa ritornare indietro. Parker e Coltrane hanno marchiato la sua anima di maledettismo; la sua mimesi, per essere assoluta, ha bisogno di vivere la stessa vita dei maestri. Massimo si è messo heideggerianamente sulle tracce degli Dei fuggiti, ma quel sentiero porta a una meta inevitabile: l’autodistruzione.
L’ingombrante compagnia dell’eroina non lo abbandonerà per i successivi 18 anni, pregiudicando gli sviluppi di una carriera che, fino a quel momento, parevano ineluttabili e mirabolanti. Massimo è sempre più inaffidabile, nel giro che conta pochi sono disposti a concedergli chances ulteriori e, quando gli vengono concesse, lui non è più in grado di approfittarne. Suonerà fino alla fine, parteciperà a festival come Umbria jazz e Montreux, il suo stile si evolverà ancora, ma la sua carriera effettiva sarà molto limitata, rispetto a quella che poteva essere.
In questo lungo periodo Urbani incide album come leader, improvvisando su standard o su motivi originali, e partecipa a produzioni altrui, tra le quali Chet in Italy di Chet Baker nel 1988. Collabora con l’altro giovane jazzista italiano dal destino tragico, Luca Flores, suicida nel 1995 a 39 anni, schiacciato dal male oscuro generato da un assurdo senso di colpa per la morte della madre, in un incidente d’auto avvenuto trent’anni prima. Con Flores, incide Easy to love (1987) da leader e, sempre nello stesso anno, Where extremes meet del malinconico pianista. Il suo ultimo album, The blessing, omaggio estremo e risolutivo al maestro tra i maestri, Charlie Parker, precede di poco la morte. Un ultimo spiraglio di salvezza è rappresentato dall’amore per Valentina e dall’attesa di un figlio che nascerà alcuni mesi dopo la sua morte. Massimo vorrebbe cogliere l’occasione della paternità per ripulirsi dall’eroina, ma non trova nè la forza, nè il tempo. Il 24 giugno del 1993 il fratello Maurizio, anch’egli sassofonista, lo ritrova in bagno stroncato da una dose tagliata male, dopo una serata alcolica.
Stream of consciousness joyceano sotto forma di fusion jazz; un fiume inarginabile di lava eruttato con urgenza assoluta, in cui affiorano mal di vivere e gioia dionisiaca ; un cannibalico, mimetico performer, in grado di fagocitare i grandi del passato e di riproporli al contempo in maniera filologica e originale; un compositore che solo nell’hic et nunc dell’improvvisazione trovava la sua aurea vena creativa. Tutto questo era Massimo Urbani.