Di Michele Giacci. Roman Polanski dirige Chinatown, uno dei più importanti noir del ventesimo secolo, un film che celebra non solo un tempo e un luogo (Los Angeles), ma anche una sorta di criminalità che oggi sembra essere alla portata di tutti.
E’ il 1974, sono passati 40 anni dal film che segnò il ritorno del regista polacco di origine francese ad Hollywood, cinque anni dopo i raccapriccianti fatti della famiglia Manson che strappò la vita alla sua bellissima moglie, l’attrice Sharon Tate. Polanski decise di utilizzare un finale cupo, piuttosto che il finale buonista della sceneggiatura originale. Presumibilmente proprio a causa dei fatti personali Polanski credeva che il vero percorso del film si intersecava meglio con la tragedia. A 40 anni di distanza è difficile discutere con l’interpretazione del regista. Solo pochi anni dopo, nel 1978, sarebbe stato incriminato e condannato per lo stupro di una ragazza di 13 anni (Samantha Geimer), e dovette fuggire in Europa come un fuggitivo. Chinatown è stato l’ultimo film di Polanski realizzato negli Stati Uniti.
Non c’è niente di sfrenato, nessun vizio eccessivo, neanche negli omicidi o nelle aggressioni che J.J. Gittes (Jack Nicholson), un detective privato specializzato in controversie matrimoniali, consuma per risolvere i casi a Chinatown. Nessun massacro insensato, niente stupri, nessun bombardamento incendiario a discapito di innocenti.
In quel tempo lontano, a metà strada tra l’abrogazione del proibizionismo e l’inaugurazione della nuova classe di criminali, truffatori e ricattatori si muovono secondo piani accuratamente premeditati. Questi piani, a loro volta, sono sempre lì alla portata di J.J. Gittes, un uomo il cui nome è sinonimo di fardello, come quando deve imparare a convivere con una cicatrice sul naso.
Da un’indagine di routine il detective scopre segreti nascosti sotto molti strati, false piste, reti di corruzione, cospirazione e inganno. Il film contiene numerosi colpi di scena (molti dei quali riguardano clienti del detective privato e la sua famiglia), scazzottate e un po’ di violenza. Gli sforzi di Gittes mirano a separare il bene dal male, o per salvare il bene e punire il male, nel mondo di Chinatown. Il titolo del film, secondo lo sceneggiatore Robert Towne, è più uno stato mentale, piuttosto che un luogo geografico.
Le musiche di Goldsmith evocano Hollywood quando era ancora un luogo in cui si costruivano sogni e i film erano “bigger than life”. Si adattano al film per stile e atmosfere. Chinatown è un esempio quasi perfetto di composizione filmica, con un attento esame ci si accorge con quanta cura è stato messo insieme. Per coloro che si immergono in un approccio più viscerale vale anche la pena notare che Chinatown è un thriller superiore – uno che non mancò di tenere gli spettatori coinvolti.
E’ un sapiente mix di mistero, romanticismo, suspense, e orgoglio poliziesco. Elementi di genere incarnati ne Il grande sonno (1946) e ne Il mistero del falco (1941), dal regista John Huston che nel film di Polanski interpreta un imponente villain. Detective movie hard-boiled, porta ancora una volta la tragedia di una donna da aiutare. Claustrofobico, ciclico, dall’umorismo nero, il film si circonda della ricerca eroica di un detective dopo la scandalosa era del Watergate dei primi anni settanta.
Quando uscì nel 1974 Chinatown venne nominato ad undici premi Oscar, tra cui miglior film, ma aveva un concorrente spietato come Il Padrino parte II, che è stato effettivamente il miglior film di quell’anno. L’unico Oscar Chinatown lo vinse per la sceneggiatura originale di Robert Towne.
Sia o no Chinatown un film da Oscar è irrilevante per la sua statura, perché non è solo un elegante filone investigativo, ma merita di essere valutato anche tra i migliori film che esplorano l’America e la buia e desolata condizione umana.