Mentre scrivo il sole sta tramontando e ombre violacee si allungano per fondersi le une con le altre in un manto sempre più scuro e indistinto.
Conan il Cimmero e Valeria della Confraternita Rossa si sono accampati nel mezzo delle pianure disabitate che si stendono per miglia dinanzi a Xuchotl, la città abbandonata che si staglia nera contro la luna alta nel cielo. Sono stanchi e affamati. Quella stessa mattina hanno dovuto combattere contro un antico e famelico drago che aveva eletto la foresta che circonda le pianure della città a sua dimora. Conan ha deciso che è meglio così, per stasera riposeranno. L’indomani, avendo recuperato le forze, lui e Valeria finiranno sbudellati dagli abitanti della città, ma almeno potranno abbozzare un tentativo di difesa e portare quanti più assalitori possibili all’inferno insieme a loro.
Conan è sempre così. Un gigantesco e possente adolescente. Non cambia mai. Sempre in fuga o all’inseguimento, sempre con una fanciulla al suo fianco. Per lo più, queste ultime sono pesi morti, esili e delicate, per quanto attraenti, fanciulle civilizzate in balia degli eventi e in balia dei nemici che il Barbaro riesce puntualmente a annientare dopo aspra lotta, mentre tenta di arraffare tesori che lo stesso è destinato a smarrire di lì a poco, col precipitare, ineluttabile anch’esso, degli eventi.
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Ma stavolta è diverso: Valeria è una guerriera fiera, indomita, una donna che non esiterebbe, e ci riuscirebbe anche, a trafiggere il cuore di Conan con la sua spada.
E, tuttavia, le meraviglie ancestrali che la coppia sta per vedere e vivere, finiscono per minare anche la falsa sicurezza e baldanza che caratterizza l’eroina co-protagonista. Tale è lo spostamento della quotidianità, la palese differenza che sussiste tra la vita cui Conan è avvezzo e l’ordinaria avventura cui ella è abituata: una donna in un mondo di uomini. E Valeria, nella penna e nella mente di Bob Howard, era tale nel 1936.
Chiodi Rossi (“Red Nails”, 1936) è, insieme a “L’Ombra che scivola” (“The Slithering Shadow”, 1933), antecedente e simile nelle tematiche, il racconto di Robert Howard che preferisco. Non sono il solo, ovviamente. Ma non so fino a che punto una simile ambientazione può solleticare la fantasia dei lettori come capita a me. È il fascino un po’ sepolcrale della città abbandonata, delle spoglie vestigia di tempi che furono. Tempi qualsiasi, di una qualsiasi civiltà che, chissà come, non è più. O quasi. E Howard aveva questa fissazione, insieme all’altra per lo scontro, o meglio il confronto tra civilizzazione, deteriore, molle e avvizzita, e natura selvaggia, pura e idealizzata, ma soprattutto possente, come i muscoli d’acciaio del suo eroe. Un po’ stucchevole, in effetti, vi do ragione. Eppure, la decadenza e il fascino delle rovine e la maniera in cui egli le descrive, accompagnando gli sguardi su saloni immensi e abbandonati, polverosi e costituiti dall’immancabile pietra verde, con una sfumatura morbosa, di vecchia e sana maledizione, è ineguagliabile. Il mistero e la degenerazione che ne consegue, l’incubo e la follia che prendono la forma di mostri ancestrali e magnifici, si annusano ogni qual volta Conan tira in ballo la propria ferina superstizione.
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Da ragazzo lo scrittore Bob Howard mi piaceva.
Lo stile, l’efficacia descrittiva e sintattica, erano cose di là da venire.
Conan era la sua spada intinta nel sangue di avversari sempre all’apparenza soverchianti, ma che sempre venivano sconfitti dalla furia indomabile del barbaro. Conan, le sue storie, erano questo e poco altro. Una visione innocente che tante volte, oggi, mi trovo a invidiare.
Trascorsi anni, Howard scrittore lo trovo banale, abbastanza ripetitivo e insopportabilmente ingenuo nel caratterizzare tanto per cominciare il suo eroe o anti-eroe e poi i personaggi femminili, che non si discostano molto dai manichini disegnati sulle copertine di “Weird Tales” dedicate a suoi racconti.
Attenzione, questo è Howard come lo vedo io. Non Howard come è o dovrebbe essere inteso. È Howard come piace a me. Perché sì, pur con tutti i difetti che gli riconosco, continua a piacermi.
E finisco, come sempre, per essere insieme a Conan e Valeria ad esplorare i corridoi di Xuchotl, la città apparentemente deserta, ma che cela tra i suoi corridoi illuminati da sinistri grappoli di giada verde pendenti dalle volte, una faida che dura da un cinquantennio tra due diverse e opposte fazioni di una civiltà morente ingannata, rinchiusa tra le mura di quall’immenso mausoleo funebre e resa folle e superstiziosa dall’arroganza dei capi che sono succeduti al comando.
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Non a caso, scrivendo di “Pandorum“, ho citato questo racconto. Non a caso finisco per ravvisare analogie in racconti così distanti tra loro. I Chiodi Rossi sono il feticcio, insieme alla nera colonna d’ebano che li ospita, il totem che i membri di Tecuhltli, fazione avversa a Xotalanc, micro-nazioni in quel micro-cosmo che è la città di Xuchotl, adorano; il simbolo, in continuo aggiornamento, dell’odio puro e cieco verso i loro nemici; simbolo, al tempo stesso delle proprie virtù guerriere e della debolezza del nemico. Maggiore è il numero dei chiodi infissi nella colonna, minore è il numero dei nemici.
Il motivo della guerra senza quartiere, senza ragione, a discapito degli elementi spiccatamente fantasy e della brama d’avventura e saccheggio di Conan e della sua compagna piratessa Valeria è brevemente accennato in poche battute che due personaggi minori, due sentinelle di Tecuhltli si scambiano circa l’ormai imminente fine del cinquantennale conflitto. L’arrivo di Conan e Valeria, i quali, con le loro azioni e le loro dichiarazioni, hanno più e più volte minato la sicurezza e la solidità degli antichi veti, basati sulla superstizione, sui quali si fonda la bizzarra società cittadina, ha rotto il precario equilibrio tra le sparute comunità, favorendo nella fazione che ha accolto i due avventurieri come alleati miraggi di vittoria. Le due sentinelle si chiedono cosa avverrà dopo aver annientato l’ultimo Xotalanc, l’ultimo dei loro nemici.
Una società che si è tagliata fuori dal mondo esterno, le cui recenti generazioni sono abituate a vivere in uno stato di guerra continuo, cosa mai potrà fare, dopo? Che ne sarà di loro?
Il futuro è, però, di breve durata. Cede il passo al Loto Nero, alle lusinghe e susseguenti brame di immortalità di una fattucchiera che, come un demone, infesta questa città votata all’autodistruzione.
Ancora una volta arrivo alla fine, soddisfatto del ritratto presentatomi da Robert Howard, della sua personale meravigliosa città, vagheggiata anche da quel tale, Randolph Carter…, sognata, osservata dall’alto di una terrazza e violata con passi felpati, agili e felini. Ancora una volta resto ammirato dalla violenza ancestrale che traspare dal testo, dalla potenza e dal vigore espressivo, dalla forza della sua idea. Ancora una volta mi domando che bisogno c’è di scrivere una sceneggiatura per un film su Conan, quando ce ne sono di complete e profonde, già scritte, già sceneggiate, già perfette così come sono state concepite dal suo creatore.
Lo so. Domanda stupida.
Le immagini sono tratte dalla Graphic Novel “Chiodi Rossi” di Roy Thomas e Barry Windsor-Smith edita dalla Comic Art nel 1989 e… sita nei miei scaffali.