È la terza volta che ci spengono, ma non ci fermiamo (l'editoriale di Luca Landò)
L’Unità chiude di nuovo. Era accaduto nel luglio del 2000 e restò via dalle edicole per otto mesi. Ora succede un’altra volta e non sappiamo se e quando ritornerà dai suoi lettori. E già questa incertezza la dice lunga su come viene gestito il presente e il futuro, se ce ne sarà uno, di questo giornale che deve sospendere le pubblicazioni ma non ha nessuna intenzione di morire, come dimostrò durante gli anni del fascismo, quando riuscì a sopravvivere diciassette anni di clandestinità: stampato in fretta e di nascosto, persino scritto a mano pur di continuare a far sentire la propria voce nell’Italia dei manganelli e dell’olio di ricino. O quando il 24 marzo 2001, contro ogni pronostico e fatto unico al mondo (i giornali che a volte ritornano di solito durano poco) si ripresentò con forza in edicola ritrovando subito la sua voce e il suo spazio.L’Unità chiude di nuovo perché anche ieri, come da troppo tempo, i soci della Nie, la società che edita il giornale e che da un mese è entrata in liquidazione, si sono riuniti in assemblea ma non sono riusciti a trovare un accordo, anche in virtù di un assurdo statuto che impone una maggioranza del 91% per prendere qualunque decisione, regalando un potere di veto che nemmeno al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Così anche se sul tavolo dei liquidatori c’era un’offerta avanzata dall’attuale socio di maggioranza (e, fatto non secondario, appoggiata dalle rappresentanze sindacali di giornalisti e poligrafici) il veto di qualcuno ha pesato più del progetto imprenditoriale di rilancio.
L’Unità chiude di nuovo, nonostante quei segnali inconfondibili venuti in questi mesi dalle edicole con gli allegati per i novant’anni di questo giornale che, ironia della sorte, sono caduti proprio quest’anno, il 12 febbraio. È il caso dello speciale con le prime pagine più belle e significative, ovviamente novanta, che è andato esaurito in due ore vendendo 120 mila copie. O dell’inserto sulla satira di Tango, Cuore, Staino, ElleKappa e tutti gli altri, o l’album di famiglia con le foto e i racconti di lettori e diffusori. O, ancora, di quello, davvero emozionante, dedicato a Enrico Berlinguer nel trentennale della sua morte.
Qualcuno ha provato a sminuire queste iniziative come frutto di un amarcord legato al passato e non più al presente. Peccato che dieci anni fa, per gli ottant’anni del giornale, non ci furono esauriti e nemmeno le tante lettere di dispiacere, a volte di rabbia, di tutti quei lettori che non sono riusciti a trovare la “loro” copia.
Perché queste risposte, così immediate e forti, sono arrivate oggi e non ieri? Un amarcord a scoppio ritardato? No, quei segnali arrivati dalle edicole indicano qualcosa di più profondo e più importante. Il legame con un giornale che è una parte della storia d’Italia, certamente. Ma anche il fatto che, proprio nel pieno di una crisi economica e sociale che morde sempre e che non molla mai, hai ancora più bisogno di un giornale politico e di sinistra. E anche, perché no, di riprendere una bandiera editoriale che ha sempre sventolato nei momenti più bui e difficili.
L’Unità chiude di nuovo perché, come ha sostenuto qualcuno in assemblea, «non ci sono più le garanzie per andare avanti». Ma quali garanzie: economiche o di altro tipo? Perché non si è voluto accogliere un’offerta accettata dai liquidatori e sostenuta dagli stessi lavoratori? E qui si apre una pagina inquietante di quanto è accaduto negli ultimi mesi ed esploso in tutta la sua gravità ieri nell’assemblea dei soci.
La verità, inutile girarci intorno, è che il Pd non ha fatto molto per impedire che l’Unità cadesse di nuovo nel buio della chiusura. Certo, l’Unità ha criticato più volte le scelte di Renzi, ma lo stesso abbiamo fatto con Cuperlo e Civati. È vero, abbiamo ospitato e ospitiamo volentieri le voci dissidenti del Pd, come Chiti e Mucchetti, ma abbiamo fatto lo stesso con quelle di Guerini e Gozi, Boschi e Taddei. E questo, non per una inutile equidistanza (che sia inutile lo dimostrano queste righe) ma perché crediamo che i lettori e gli elettori del Pd abbiano il diritto di conoscere le opinioni e le voci che si agitano all’interno del loro partito. E se non è l’Unità a farlo, chi dovrebbe essere di grazia?
Ma qui spunta insolente una domanda: se voleva una linea politica ed editoriale diversa, non poteva il Pd sostenere una cordata di imprenditori capace di fare un’offerta alternativa a quella messa sul tavolo da Fago? Davvero quello che viene chiamato «Mister 41%» in Europa, non è in grado di parlare con quattro imprenditori in Italia?
Difficile crederlo, a meno che l’obbiettivo non fosse quello di utilizzare il potere di veto per portare l’Unità sull’orlo del fallimento o anche oltre. E poi avanzare un’offerta assai più ridotta per rilevare la testata e solo quella.
Col senno di poi, e di quanto accaduto ieri, assume un altro senso anche l’uscita di Renzi all’ultima Assemblea nazionale del Pd quando parlò di salvare, non un giornale, ma un brand, un marchio.
Come pure l’idea di unire l’Unità ed Europa, proposta ragionevole in linea astratta, ma che non regge dal punto di vista economico e sindacale (se fondi due giornali in crisi e con esuberi, non fai che accrescere la crisi e sommare gli esuberi). A meno che, ecco il punto, l’obbiettivo non fosse prendere solo i due marchi (i brand) e gettare il contenuto (i lavoratori): ma è questo il disegno? Chiudere l’Unità per cacciare i giornalisti? Prendere il nome per un piatto di lenticchie?
Ci auguriamo ovviamente di no, visto che Renzi, non è solo il presidente del Consiglio, ma il segretario di un partito che è il riferimento politico ed editoriale di questo giornale. E vorremmo davvero poter escludere che il Partito democratico abbia preferito arrotolare una bandiera e mandare a casa 80 lavoratori, piuttosto che impegnarsi davvero per garantire un presente e un futuro a questo giornale. Magari aprendo un confronto franco e schietto con lo stesso Matteo Fago.
Ieri sera Renzi ha detto che l’Unità non chiuderà perché è un pezzo importante della sinistra. Giusto, ma intanto l’Unità chiude un’altra volta e proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno. Non sappiamo se e quando questa storia, come in passato, comincerà di nuovo. Forse qualcuno prenderà davvero la testata per pochi soldi, dopo averla svuotata di contenuti, valori e lavoratori. O forse no. L’unica certezza, nel frattempo, è che quella di ieri è stata una pagina triste, non solo dell’Unità, ma di tutto il Partito democratico.
Domani, come hanno scritto i liquidatori nel comunicato che riportiamo in pagina, uscirà l’ultimo numero di questo giornale. Oggi invece troverete soltanto pagine bianche: sono pagine di protesta, ovviamente, ma soprattutto di allarme. Per spiegare, senza troppi giri di parole, come sarà il mondo dell’informazione senza la voce dell’Unità.
Luca Landò
Spiace dirlo, ma la notizia della chiusura de l'Unità non giunge inaspettata. Non per noi. Presuntuosamente, avevamo preconizzato che ciò sarebbe avvenuto già a metà novembre 2013, quando in una intervista (che pubblicheremo in un altro post) l'editore di maggioranza de l'Unità - Matteo Fago - aveva dichiarato, apertis verbis, che MAI l'Unità avrebbe appoggiato le politiche di destra dell'altro Matteo.
Lo avevamo ribadito quando abbiamo iniziato a notare gli "eccessi di libertà" che si concedevano a Toni Jop, Maria Novella Oppo, Piergiorgio Odifreddi, Staino ed altri. Come si permettono?
Infine (ed è solo storia di pochi giorni fa) avevamo parlato con molto sospetto della comparsata ad "Omnibus" di Stefano Menichini (direttore del giornalucolo "Europa Quotidiano"), tutto intento a strologare di eventuali "fusioni" fra l'Unità e Europa Quotidiano. In un post avevamo chiesto: "chi dirigerà questo ircocervo? un "comunista" come Landò, o un democristiano come Stefano Menichini"? A cosa dovrebbe servire la fusione di due malati? a produrre un robusto e palestrato "coso" privo di linea politica chiara, o a cercare di mettere insieme il concavo col convesso?
Al quadro è mancato solo (ma si è sempre in tempo a rimediare), un "hastag" del bischero di Frignano, che ormai dirige il paese via Twitter: #landòstaisereno. Questa volta gli è mancato il tempo. Troppo impegnato a ricevere tenniste, schermitrici e ciclisti. Ha scoperto il nuovo filone della comunicazione, a rimorchio del Berlusconi che invitava a Palazzo Chigi la Francesca Schiavone vincitrice del Roland Garros.
Una cosa è certa: l'Unità come giornale della sinistra è morto, e questa volta non resusciterà se non dopo la morte politica di Renzi. Quando milioni di imbecilli italiani smetteranno di mettersi in vendita per 80, miserabili euro, e si accorgeranno che la contropartita è la continua riduzione dei servizi e della qualità della vita, e l'aumento inarrestabile della disoccupazione, forse sarà troppo tardi, o forse no.
Questo giornale rinascerà, come è sempre successo, quando sarà chiaro anche ai cagnolini da lecco che quest'uomo sta uccidendo la democrazia e l'economia, e che agli italiani della riforma del Senato non frega proprio un cazzo. Rinascerà, dovessimo stamparlo con la ink-jet casa per casa, e regalarlo agli angoli delle strade. Il demo-fascista Matteo Renzi non avrà il nostro scalpo.
Tafanus
2707/0630/1030