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La scioltezza con cui il cinema di Petzold riesce ad affrontare temi e aspetti della storia recente, nello specifico la rievocazione della Ddr, con grande riflessione e maturità stilistica, avrebbe molto da insegnare al nostro cinema bolso e para-televisivo, in particolar modo quando (quasi sempre) si cimenta a rievocare fatti del vicino passato con "grande" autorialità e serietà. Ci troviamo di fronte a un film passato in sordina, eppure uno dei migliori che ci sia stato dato di vedere nelle ultime settimane. Petzold, regista poco conosciuto e assolutamente da riscoprire, ci propone un film intimista e meditabondo, e insieme politico e vibrante.
La vicenda è incentrata sulla figura di Barbara, pediatra confinata in provincia dalle forze dell'ordine della Ddr, che ha provato a scappare dall'altro lato della cortina di ferro agli inizi degli anni '80. Il suo arrivo in provincia della Germania comunista sarà traumatico e oppressivo, per via della polizia segreta che la perseguita, e che la sottopone a continue e degradanti controlli. Ad aiutarla c'è un onesto medico con il quale cresce, a poco a poco, e non senza sospetti di spionaggio, una storia d'amore.
Ciò che determina l'umore della pellicola è un senso non tanto di oppressione e grigiore come nel più famoso Le Vite Degli Altri, quindi non di denuncia socialmente mirata, quanto di precarietà dei sentimenti e delle aspettative, di solitudine e attesa, di desideri cancellati e scelte difficili; in tal senso, rispetto al connazionale vincitore degli Oscar 2007 Barbara è un film ben più contemporaneo e molto meno didascalico. Il merito di questo film, che allo spettatore comune potrebbe apparire piatto e freddo (ma io preferisco appellarmi al "sobrio"), ben lontano dalle emotività della pellicola di Von Donnesmarck (peraltro, sopravvalutato all'epoca, come si è visto nella sua successiva direzione cinematografica), è il suo mistero, i suoi interrogativi. A differenza di Le Vite Degli Altri il film di Petzold non rassicura lo spettatore con dei buoni e cattivi ben definiti, non alimenta l'emozione usando come veicolo la classica trasformazione del personaggio protagonista se non attraverso un senso di sconfortante indeterminatezza, tanto negli ambienti che nei caratteri, che può essere superata solo con una (catartica) scelta, quella a cui allude il titolo.
Una pellicola austera e "sospettosa" come il personaggio interpretato dalla meravigliosa Nina Ross, ricca di allusioni eppure lucidissima e coerente; una messa in scena sincera, pregna di spessore umano e psicologico, che non perde mai un grammo di problematicità, perchè è sì un thriller inquadrato in un contesto lavorativo asfissiante (l'ospedale in cui è in cura una ragazzina costretta ai lavori "forzati" sociali), eppure il meccanismo fatto di pedinamenti, ispezioni e tensione (mai drammatizzata, ma schiettamente "umana") funziona perfettamente solo se oliato da una storia d'amore, clandestino (il fidanzato occidentale) o integrato: il timido collega dottore, anche lui magnificamente interpretato, è un personaggio che sembrerebbe positivo a priori ma anche lui ha qualche scheletro nell'armadio (si trova in quel luogo per una ragione); in una scena il "persecutore" che ormai siamo abituati a vedere come burocrate bastardo, si rivela in tutta la sua fragilità mentre la moglie sta morendo; sarà proprio il dottore a somministrarle (illegalmente) la morfina necessaria a placarle il dolore. E Barbara a un certo punto gli chiede "Aiuti sempre gli stronzi?" e il dottore le risponde: "Se sono malati, sì.". Una sintesi di tutto il film in sole due battute.
Barbara è un film piccolo, timido, interiore ma anche compatto e coraggioso, che non ha paura di gridare, di imporsi. Orso D'Argento a Berlino. Merita la visione.
Stefano Uboldi
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