Christian Sinicco, BALLATE DI LAGOSTA, MARE DEL POEMA, CFR 2013
Si nota subito una differenza formale tra la seconda parte del libro “Mare del poema”, scritto a 22 anni, e le “Ballate di Lagosta”, poesia evidentemente di una stagione più matura, più incline a riprendere forme chiuse piuttosto che spazi e campiture, campi di battaglia in cui può esercitarsi la prosa o un andare a capo più nervoso.
La ballata equivale grossomodo in musica a una canzone che racconta qualcosa, e risulta naturale, quindi, la struttura musicale che si sente in questi versi – perfino con un riferimento di passaggio al rap – ma soprattutto con un respiro lungo abbastanza tipico della scrittura di questo poeta che gli deriva probabilmente da un’ambizione al poema, vicina a un epos errabondo, però, tipicamente moderno.
Ed è un errare, come segnala Alberto Bertoni nella premessa, “che affonda radici nella propensione per così dire naturale della Mittelleuropa, al concerto babelico delle voci e dei suoni, delle lingue e delle storie, tra i microcosmi del suo inesausto destino migratorio”.
Sta di fatto che questo viaggio prende la direzione di un “oriente meridionale”, caricandosi, allora, di colori e situazioni ben definiti nella descrizione di oggetti, di persone, di ambienti.
Sinicco sembra preferire, accanto all’onnipresenza del mare, topos del viaggio, del cercare e del perdersi, anche una verticalità che affonda verso il basso, che vuole cercare qualcosa che si è perduto. E sono quasi sempre femminili le figure con le quali il poeta si trova a dover condividere sguardo e parola, ad indicare l’assolutezza di un principio di conoscenza, forse di iniziazione, dipendente dalla forte accoglienza della foemina, quindi della terra come grembo, piuttosto che del principio assertivo, se non addirittura dittatorio, dello sguardo maschile – si veda il bellissimo testo in dialetto, forse il più bello del libro, in cui si parla di dar da mangiare a una capra, perché essa possa nutrire il mondo col suo latte -
In effetti questo viaggio si svolge in un paese che non esiste più, devastato dalla guerra e dalla separazione, la ex Iugoslavia, quindi in una terra “nuova ” dove sia possibile, forse, nel modo dell’Ulisse di Walcott, reinventare una nuova parola bastarda, creola.
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