La nostra rassegna di racconti sotto l'albero finisce oggi con le ultime quattro storie in gara, che non macheranno, sono sicura, di coinvolgervi fino all'ultima! Ce n'è davvero per tutti i gusti, dal contemporaneo, allo storico, al paranormale...finiamo davvero in bellezza!
Ma se oggi termina la presentazione dei racconti, il gioco di Natale non finisce qui, anzi! Da domani ,infatti, si potrà cominciare a pensare a quale fra tutti i 20 RACCONTI che avete letto fino a qui vi ha maggiormente emozionato , quale vi è sembrato scritto meglio, quale vi ha coinvolto di più. Potrete tornare a leggere in tutta tranquillità quelli che non vi ricordate e poi... VOTATE per eleggere il racconto vincitore di Christmas in Love 2010!
La box con il sondaggio per votare apparirà domani e rimarrà sul sidebar del blog fino al 14 gennaio 2011. Chi non riesce a decidersi fra più racconti, potrà dare la propria preferenza fino ad un massimo di tre racconti!
E se conoscete amiche, colleghe, parenti a cui piace leggere racconti romantici, pubblicizzate CHRISTMAS IN LOVE e invitatele sul blog a leggere le nostre storie...ci piace pensare che questi racconti possano essere letti da un grande numero di lettrici, per regalare a tutte loro un sorriso in più in attesa del nuovo anno!
Naturalmente chi ancora non l'ha fatto può lasciare un suo personale commento ai racconti in gara. Fra tutte le lettrici che lasceranno commenti non anonimi ai racconti di CHRISTMAS IN LOVE, verranno estrattii nostri regali di Natale...che siamo sicure vi piaceranno molto! L'estrazione dei nominativi delle vincitrici avverrà il 6 gennaio 2011, a ogni commento sarà assegnato un numero che potrà essere estratto sulla RUOTA NAZIONALE del LOTTO il 6 gennaio 2011 ( ogni commentatrice avrà diritto, indipendentemente dal numero dei commenti lasciati, fino a tre numeri con cui poter concorrere) .
BUONA FORTUNA E BUONA LETTURA !
(Se ancora non sapete le modalità per partecipare alla nostra gara di racconti leggete qui.)
ECCO IL DICIASSETTESIMO RACCONTO...
Odio il Natale! Ogni anno, a metà Dicembre, mi dico che questa volta sarà diverso, che andrà tutto bene, che finalmente sarò come chiunque altro, avvolta nel dolce clima festivo. Poi, arriva il 24 e l’illusione crolla. La cena brucia incendiando parte della cucina, lo zio si strozza, mio cugino spacca denti e non so quante centinaia di euro di pianoforte nuovo. Una lunga lista d’incidenti, ricordi indelebili ( ho ancora le cicatrici di quella volta che caddi con albero e addobbi al seguito) di vacanze poco pacifiche. Il prossimo però, sarebbe stato il mio venticinquesimo Natale su questa terra, il primo da fidanzata. Non avrei permesso a questa maledizione di vincere anche stavolta, ero determinata ad essere felice. Avevo quindi deciso di raggiungere il mio ragazzo a Roma, un giorno prima del previsto. Mi vedevo già la scena: cenetta romantica solo per noi prima della mischia di parenti, una camera in un hotel lontano dal caos cittadino, e il mio completino nuovo come regalo anticipato. Arrivata a casa dei suoi, suonai il campanello. “Giulia, ma che sorpresa, vi aspettavamo per domani. Ma dov’è Ale, cerca il parcheggio?” Eccolo il brivido che precede il disastro natalizio, appena un attimo prima che la bomba scoppi. La maledizione del Natale non lasciava scampo. Forse quella donna sulla porta, con grembiule, bigodini e retina era la madre di un altro Alessio, che sarebbe arrivato domani con la sua fidanzata Giulia, perché quello che conviveva con me da due mesi, era qui a Roma da una settimana. Lo dissi alla signora, lei sbiancò e filò in soggiorno senza aggiungere una parola. Prese il telefono. Tre squilli e lui rispose. Certo che era ancora a Pisa, non si ricordava che gli aveva detto che sarebbe arrivato domani? Certo che stava bene. Lei mi fissò negli occhi sicura di trovarvi una soluzione al mistero. Allungai la mano e salutai l’interlocutore. Sì ero proprio io e sì, ero con sua madre a Roma, senza di lui. No, non mi interessavano le scuse ed era proprio come pensavo. Lasciai il telefono sul tavolo, mentre le parole ‘confuso’ e ‘tempo per me stesso’ mi seguirono fino alla soglia. Presi il trolley e chiusi la porta alle mie spalle. Raggiunta la pace della stanza 23, prenotai un biglietto del treno per il giorno dopo. Poi riempii la vasca, ci buttai tutta la boccetta omaggio e mi immersi in una coltre di schiuma al muschio bianco. Nella camera da letto il cellulare squillava senza tregua. Presi fiato e sprofondai nel silenzio dell’acqua, mentre le lacrime si confondevano con il resto. Odiavo il Natale, e in questo 2009, lo schifo era arrivato pure un giorno prima. A colazione, ero tornata l’immagine di una felice e sana ragazza. Profumavo di muschio bianco, niente occhiaie grazie ad un trucco impeccabile e il completino nuovo mi faceva sentire sexy. Nessuno avrebbe sospettato che vedere i due piccioncini del tavolo accanto al mio imboccarsi teneramente, mi causava un travaso di bile. Il fatto che fossimo solo noi tre nella sala, non migliorava certo la situazione. Finalmente un nuovo ospite si unì a noi. Guardò i due innamorati, poi me, poi di nuovo loro e ancora me. Sorrise o forse sogghignò e andò a prendersi un cornetto. Finita la colazione, presi il trolley e attesi l’arrivo del taxi che il gentile concierge aveva chiamato per me. Aspettavo da alcuni minuti, quando proprio quest’ultimo mi si avvicinò seguito dal sogghignante ragazzo della colazione. “Mi scusi signorina Molinari, ma c’è stato un disguido con i taxi; anche questo signore lo ha prenotato e per sbaglio la società ne ha mandato uno solo.” “Glielo cederei volentieri, ma ho un treno da prendere e ho paura di perderlo se aspetto l’altro” disse il giovane. “Allora se non le dispiace, potremmo andare insieme, anch’io dovrei prendere il treno”. Lo so, non si va in macchina con degli sconosciuti, ma questo era diverso, ci sarebbe stato un tassista con noi. Lui sorrise, mi porse la mano e si presentò. Si chiamava Luca. “Almeno potrà dire ai suoi di non essere salita in auto con un perfetto estraneo” aggiunse. Oddio, mi leggeva nel pensiero? Sorrise ancora, prese la mia valigia e la caricò in bauliera, poi aprì lo sportello e mi fece accomodare. Restammo in silenzio per un po’, ognuno preso dai propri pensieri. Possibile che tutto fosse successo solo il giorno prima? Avevo avuto l’idea e nel giro di mezzora, biglietto alla mano e booking on-line fatto, giravo per il corso alla ricerca del completino per le follie notturne. Posto di seconda classe sul treno Pisa-Roma 53,90 euro con **** Camera con balcone vista città 200 euro con **** Mise per sedurlo in pizzo e swarovsky 57 euro con **** Liberarsi di uno stronzo, non ha prezzo! “Siamo bloccati, c’è un incidente” disse il mio compagno di viaggio. “Scusi quanto ci vuole per arrivare alla stazione?” chiesi al tassista. “Una quarantina di minuti.” “E a piedi?” “Venti.” “Il mio treno parte tra mezz’ora, è meglio se scendo qui” dissi rivolta ad entrambi gli uomini. “Stavo pensando la stessa cosa. Anche il mio parte tra poco.” Fu così che ci addentrammo armi e bagagli nel traffico romano. Venne fuori che eravamo entrambi diretti a Pisa e che i nostri posti non erano poi così distanti. Mi raccontò di aver rinunciato alla cena con i colleghi per poter festeggiare il Natale con i suoi. Stava aspettando che lo trasferissero a Firenze, così da essere più vicino, e meno immerso in una grande città, che per uno cresciuto in un paesino, rappresentava il massimo dell’alienazione. Parlando parlando, scoprimmo di avere amici in comune, di essere andati al mare tutte le estati allo stesso bagno e di aver frequentato lo stesso liceo. Lui sorrideva molto e si sistemava un ciuffo di capelli ribelli in continuazione. Aveva gli occhi nocciola che seguivano il mondo curiosi e un naso di un certo carattere, che rendeva il suo viso particolare e raffinato. Arrivammo sul binario giusto in tempo e, visto che non c’era molta gente, ci sedemmo vicini. Non ricordo il momento preciso in cui mi accorsi che lo stavo rapportando ad Ale lo stronzo, ricordo solo che continuavo a ripetere che erano completamente diversi. Questo ragazzo alto e magro, continuava a far battute, a sorridere e a chiedere le cose più assurde sul mio conto. Chi domanderebbe ad una persona conosciuta da poco se preferisce l’inglese o il francese, se è del partito dei ‘solo dolce a colazione’ o del toast e valdostana. Io no di certo.Le mie erano domande canoniche: studio, lavoro, famiglia. Poi mi ritrovai a parlare del motivo del mio viaggio a Roma. Esposi i fatti senza sentimentalismo, perché non volevo la sua compassione. Partii dalla maledizione del Natale fino ad arrivare alla mia personalizzazione della pubblicità della carta di credito. Lui scoppiò a ridere, poi mi guardò malizioso e mi chiese: “ Che fine ha fatto quel completino?” Risposi la verità senza pensarci, ma già a metà frase cominciai ad arrossire. Non si parla d’intimo con un estraneo, soprattutto se è un bel ragazzo e se non ci sono possibilità di fuga (o di sotterrarsi). Smise di ridere. Mi fissò per alcuni secondi senza battere ciglio. Si schiarì la voce e disse: “ Questo Ale doveva proprio essere un idiota”. Rimanemmo in silenzio per un po’. Guardavo ostinata fuori dal finestrino e non riuscivo ad abbassare la mia frequenza cardiaca nemmeno con tutta la buona volontà. Qualcosa era cambiato nel giro di attimi. Tutta la sua persona era passata da un lontano e nebuloso personaggio maschile ad un concreto Luca che mi fissava incessantemente. Raccolto il coraggio mi girai. Sorrise e mi domandò: “Che fai questa sera?” Deglutii .“In realtà niente. Perché?” “Pensavo che, magari, potevamo iniziare con una cena romantica...” sorrise. “Non ti farò vedere questo completino!” “Non questo…? Interessante!” “Volevo dire che… sai cosa volevo dire!” “Già. Beh intanto andiamo a cena”. Non vide quel completino per un po’ di tempo, ma passai il più bel Natale della mia vita. La maledizione era spezzata. Ale lo stronzo si ritrovò solo come un cane, perché la tipa che aveva passato la settimana con lui scoprì che era fidanzato e gli dette il ben servito. Tra pochi giorni sarà il 25 dicembre e non vedo l’ora che arrivi perché è il primo anniversario con Luca. Dice di avere in serbo una sorpresa speciale che mi farà vivere le feste in uno stato di grazia… credo abbia a che fare con una certa scatolina quadrata che ho trovato casualmente nel ripiano in alto dell’armadio.
GLORIA DANGELO (*)
(*) Questo è uno pseudonimo, il vero nome dell'autrice che verrà svelato a fine concorso.
...E DICIOTTESIMO RACCONTO...
C’era solo silenzio, intorno a lui. La chiesa era vuota, ad eccezione di quelle figure che sembravano puntarlo con occhi severi, dal soffitto e nelle cappelle piene di affreschi. Si sentiva circondato da volti austeri, impositori, che avrebbero giudicato le sue mancanze e le sue colpe e che lo avrebbero condannato, per il resto dei suoi giorni, a un’esistenza infelice. Non ricordava nemmeno perché si trovasse all’interno di quel luogo, sacro ai fedeli ma tanto odiato da lui. Lui che non credeva in nessun Dio, in nessuna promessa salvifica, soprattutto adesso che aveva perso tutto. Soprattutto adesso che lei se n’era andata per sempre. La sua Jane, portata via dalla malattia, consumata e trasformata dalla sofferenza. Quale orribile disgrazia! Come poteva esistere un Dio benevolo se riservava alle anime più belle e giovani una morte così atroce? Se non concedeva loro nessun conforto misericordioso? Piangeva, mentre pensava a tutto ciò, con le mani a coprire il volto rigato di lacrime, inginocchiato sul pavimento freddo e scosso dai singhiozzi. Cosa sarebbe stato di lui? I ricordi riaffioravano veloci, come l’arrivo di un temporale che spazza via il sereno, e gli affliggevano tormento. Non avrebbe più potuto stringersi al suo petto morbido e vellutato, non avrebbe più potuto perdersi nei suoi sguardi dolci e devoti, non avrebbe più potuto trastullarsi con i suoi riccioli color dell’oro, non avrebbe più potuto premere le sue labbra su quelle lisce e accoglienti di lei. Non avrebbe più potuto amarla. Ecco che ritornava la sua voce limpida e modulata, la sua risata timida e sensuale, quel tono caratteristico che terminava con delle note acute, una pace per l’udito e per i sensi. «Che gioco meschino ha tramato il destino contro di me! Che terribile agonia mi ha serbato!» si lamentava, in mezzo agli spasimi del pianto. Le candele tremolanti creavano aloni luminosi intorno alle fiammelle, come tanti piccoli steli di stelle, uniche luci nel cuore di quell’uomo precipitato, invece, nel buio più assoluto.
***
«Oh, Christopher, sono stufa di questa tua ostinazione! Sono trascorsi tre anni dalla scomparsa di quella povera figliola e tu continui a non toccare cibo e a rifiutare qualsiasi gentilezza. Non credo proprio che Jane ti avrebbe permesso di abbandonarti a questo stato di apatia del corpo e dell’anima. Anzi, ne sono sicura, non te lo avrebbe permesso».La donna aveva portato per lui un cestino ricolmo di pane fragrante, appena uscito dal forno, di marmellate dolci e saporite, con due fiaschi di vino rosso e alcune bottiglie di latte. Ma l’uomo non voleva saperne; non si era nemmeno degnato di ringraziarla. Dopotutto, era il minimo che potesse fare un gentiluomo di classe come lui. Al contrario, si limitò a borbottare. «Ti prego, Miriam, non è il momento». «Per te non è mai il momento, certo» sbuffò la donna, mettendosi le mani sui fianchi. «Ma sappi che non è affatto salutare e che è completamente da sciocchi comportarsi in questo modo». L’uomo si portò una mano alle labbra e si mordicchiò le nocche screpolate. Aveva gli occhi lucidi e lo sguardo altrove. «Meglio comportarsi da sciocchi che fingere una vita che non possiedo più». «Ma, Christopher, tu hai ancora una vita! Comprendo il tuo dolore, tuttavia…». «Taci!» urlò l’uomo, sollevandosi dalla sedia e puntando un dito smagrito contro la donna. «Tu non conosci la morte perché non l’hai mai vista in faccia, perché ha ancora risparmiato la tua esistenza e quella delle persone che ami». Le si avvicinò e abbassò il tono della voce. «Tu non conosci dolore e sofferenza, tu non sai cosa significa rimanere in vita senza più un cuore, senza più sangue nelle vene, senza più ossigeno da respirare». La donna trattenne il respiro e una lacrima furtiva le bagnò una guancia. «Io non conoscerò tutte queste cose, è vero, ma combatto ogni giorno contro la paura e la sofferenza che mi provocherebbe la perdita di un amico al quale voglio bene». L’uomo restò immobile, colpito da quelle parole intrise di un sentimento che non sapeva bene identificare. Sembravano andare al di là del semplice e naturale affetto. Nella stanza di quella casa, la sua dimora di campagna, riscaldato dal fuoco che sfrigolava nel camino a parete, Christopher si sentì disarmato, spogliato di quella maschera che nascondeva le sue ferite agli occhi della gente. Non era pronto a dare ragione alle parole di Miriam, la sua amica d’infanzia, ma sapeva di essersi lasciato trasportare dalla corrente delle ombre, fino ad annegare insieme a esse. Diede bruscamente le spalle alla donna che gli stava davanti e si avvicinò alla grande finestra rettangolare, che dava sull’immensa distesa di campo della proprietà. Rimasero in silenzio per un po’ a riflettere sulle proprie audacie verbali. «Non ti obbligherò, né ti assillerò» pronunciò infine lei, pacata. «Ma concediti una possibilità, una speranza. È la vigilia di Natale, dopotutto». Christopher avrebbe voluto risponderle che il Natale era solo una stupida festa, che non v’era nulla di nobile o morale nel sedersi al cospetto di tavole imbandite per abbuffarsi, ma si astenne dall’esprimere quel pensiero a voce. Lo fece perché sapeva che l’avrebbe delusa ulteriormente e poiché, invece, quella donna si prodigava tanto per lui e nutriva dei sentimenti sinceri per la sua incolumità, non volle piegarsi a una simile crudeltà. Semplicemente, decise di rimanere assorto nel suo silenzio, a contemplare le immagini di un’esistenza remota che mai sarebbe tornata.
***
Quella notte fece un sogno assai strano e, allo stesso tempo, magnifico. Sognò Jane. Si trovavano seduti sulla soffice erbetta di un prato, riparati sotto la chioma rigogliosa di una quercia. Doveva essere pomeriggio inoltrato, visto che il sole iniziava a tingersi di arancio e i suoi raggi ad affievolirsi. Nessuno disturbava la loro quiete ed era così piacevole immergersi nel silenzio della natura che, ad un certo punto, Jane aveva chiuso gli occhi e aveva esalato un profondo sospiro. Lui si sentiva fremere dentro, con il cuore a martellargli in petto e il sangue a pulsargli nelle vene. Quella fanciulla era ciò che di più prezioso al mondo un uomo potesse desiderare. Portava i capelli sciolti, una cascata di boccoli a solleticarle le spalle, e la sua pelle emanava un profumo delizioso, soave: di rose e gelsomino. Avrebbe voluto riempirle il collo di teneri baci, ma proprio quando stava protendendo il viso verso di lei, Jane parlò. «Mi chiedo per quanto tempo ancora debba durare» disse. Non si trattava di una domanda, bensì di un’affermazione. Christopher aveva spalancato gli occhi, sorpreso e confuso. «Avanti,» proseguì lei, sempre a occhi chiusi «non fare quella faccia. Hai capito benissimo di cosa parlo». «No, amore mio, credo di non capire». A quel punto, Jane aveva aperto gli occhi e con un gesto gentile gli aveva afferrato le mani. «Non puoi annegare nel dolore» gli disse, con un’espressione accorata sul viso. «Hai sofferto abbastanza per la mia morte, dentro il tuo petto batte il cuore di un uomo ancora vivo che vuole tornare a sperare». Lui era sempre più interdetto. «Ma io credevo…». «Tu hai creduto in troppe cose e troppe ne stai perdendo». Gli accarezzò la linea della mascella, contratta per la smania di controbattere a quelle supposizioni senza, però, averne il coraggio, e gli sorrise. «Christopher, se vuoi rendermi felice, ascoltami». E gli confidò il suo desiderio, con gli occhi che brillavano di fiducia e le gote lievemente arrossate. Lui non aprì bocca, obbedendo alla sua richiesta, inebriato dal tocco di quelle dita delicate sul suo volto ispido e spigoloso. Un tocco che lo ammansiva nel profondo, acquietava le tempeste dell’animo, leniva le ferite dei suoi sentimenti infranti, ammorbidiva il suo sguardo freddo come ghiaccio, arrabbiato con il cielo per avergli rubato la sua stella più bella e splendente. Quando ella ebbe finito di parlare, la mano si ritirò, lasciandogli impresso sulla pelle un calore piacevole, intimo. Christopher ebbe l’impressione che qualcosa non andava. Stava perdendo la vista, forse? I contorni del viso di Jane si stavano sfuocando, la sua figura sembrava sdoppiarsi e poi riprendere il proprio posto, solo per qualche secondo. Sbatté le palpebre ma non cambiò nulla. Allora allungò una mano per raggiungere quella della sua amata, tuttavia gli risultava impossibile. Era come se le forze lo stessero abbandonando all’improvviso, come se stesse per svenire. Ed infatti, pochi attimi dopo, il nero inghiottì ogni altro colore e calò su di lui come un sipario.
***Se ne stava fermo sul marciapiede, di fronte alla villetta addobbata con ghirlande e luci colorate dalla quale proveniva un profumo irresistibile di zucchero e cannella, mele sciroppate e cioccolato, con le mani nelle tasche del lungo cappotto e uno sguardo indeciso. La neve cadeva lenta, posandosi ovunque con leggiadria, e un fiocco si era sciolto sulla punta del suo naso. Christopher rabbrividì, ma si impose di aspettare ancora. Prima o poi, si disse, aprirà. Aveva calcolato tutto alla perfezione, non poteva non funzionare. Qualcuno si mosse all’interno dell’abitazione, un’ombra un po’ ingobbita. Doveva essere Harold, il maggiordomo. La porta d’ingresso si aprì e l’anziano signore lanciò occhiate indagatrici a destra e a sinistra prima di far cadere il suo sguardo in basso. Si accorse del cartone e capì finalmente da dove provenisse quell’uggiolio sommesso. Quando ebbe piegato infuori le alette della scatola, spalancò gli occhi ed esultò gioioso. «Signorina Miriam, corra, presto! Credo che il primo ospite sia già arrivato». Si udì il rumore di tacchi che scendevano precipitosamente le scale e poi Miriam sbucò alle spalle di Harold. «Che succede?» gli domandò, trafelata.«Guardi che creaturina adorabile!» cantilenò l’anziano signore. Miriam chinò il capo e si portò una mano sul petto. Non poteva crederci, quello era un cucciolo di cane! Con una coccardina rossa attaccata al collare! Un magnifico dono di Natale! Ma, da parte di chi? Miriam sollevò l’animale dalla sua casetta di cartone e se lo strinse con un gesto affettuoso, materno. Lei andava matta per i cani e ne desiderava uno da quando aveva cinque anni. Ma non era mai stato possibile acquistarlo perché i suoi genitori erano contrari all’idea di avere un animale in giro per la casa. «È assolutamente inopportuno e pericoloso» la rimproveravano ogni volta che usciva l’argomento. Colpa della loro mania per il pulito. Ora che lei era cresciuta, però, ci stava seriamente riflettendo ed era quasi pronta a prenderne uno. Forse, ci aveva pensato il suo angelo a esaudire il suo sogno. La notte della vigilia di Natale. Istintivamente alzò lo sguardo e, immobile sul marciapiede di fronte alla sua abitazione, vide Christopher. Le stava sorridendo. Sì, non si sbagliava, quello era un autentico sorriso. Le sue labbra ricambiarono e i suoi occhi presero a inumidirsi di nuove lacrime. Stavolta, però, non di tristezza né di nostalgia. Erano lacrime di pura felicità e riconoscenza, perché l’uomo che vedeva davanti a sé non aveva più addosso i segni della sconfitta ma quelli sfavillanti della rinascita.
E quello era il suo più bel regalo di Natale.
ANGELICA STAR (*)
(*) Questo è uno pseudonimo, il vero nome dell'autrice verrà svelato a fine concorso.
...E IL DICIANNOVESIMO RACCONTO...
La carrozza procedeva spedita sulle strade di campagna; nonostante le nevicate degli ultimi giorni, i sentieri apparivano sgombri. Il rombante rumore delle ruote spezzava il silenzio della campagna e sparuti uccellini svolazzavano al suo passaggio.Avvolta in una coperta di cachemire, Sarah Lewiss, guardava il paesaggio ma la sua mente non fissava le immagini che scorrevano, intrappolata in lontani ricordi. Esattamente due anni prima era scappata da quei luoghi per andare incontro al suo destino. Ora vi ritornava più saggia e matura ma con la consapevolezza che non sarebbe stata accettata dai suoi cari. Era un’avventuriera, un’artista intrepida, una spregiudicata: era fuggita da casa diretta in Italia, dove aveva appreso in modo completo l’arte della pittura, raggiungendo dei successi insperati, specializzandosi soprattutto nei ritratti dei bambini, grazie alla dolcezza con cui li trattava. Qualunque genitore sarebbe stato orgoglioso di quei successi, qualunque ma non suo padre.Lui avrebbe voluto che la figlia fosse una signorina rispettosa delle buone usanze, con l’unico obiettivo di formare una famiglia con chi riteneva più appropriato.Sarah era stata una fanciulla caparbia, determinata a raggiungere il massimo per se stessa e crescendo aveva capito che non si sarebbe piegata a un matrimonio di convenienza a costo di rimanere zitella. Non avrebbe commesso l’errore della madre. Natalie Birgman, figlia del Conte Stanhop, eccellente artista, aveva accettato con grazia e remissività il matrimonio con l’illustre avvocato di famiglia, insignito, già agli albori della sua carriera, del titolo di Baronetto per i servizi resi a Giorgio III; ma la sua vita era stata un inferno. Lord Edward Lewiss aveva chiesto la mano di Natalie solo per il potere che da quel matrimonio avrebbe ricavato, nessun sentimento di affetto era mai sorto. Aveva collezionato amanti come un qualunque Lord accumulava tabacchiere; aveva accolto sotto la sua tutela due figli illegittimi nati da relazioni più durature; non aveva versato una lacrima alla morte della consorte che aveva abbandonato nella dimora di campagna, dopo appena due anni di matrimonio, una figlia nata e due aborti.Soltanto una falsa rispettabilità lo aveva distolto dal proposito di divorziare da una donna che considerava una palla al piede, esattamente come la figlia che era nata da quell’unione. Così mentre Lord Lewiss, scorrazzava da un letto a un altro, affascinava con i suoi modi arguti Principi e nobili, Sarah e Natalie erano rimaste in campagna, amandosi e vivendo l’una per l’altra. Immergendosi in un mondo di pennelli, tele e colori.Tutto era finito alla morte di Natalie, quando Sarah era stata costretta a lasciare il suo mondo, ad accettare la nuova giovane consorte del padre, a conoscere i suoi fratelli. Nessuno l’aveva accettata, nessuno le aveva rivolto uno sguardo amorevole; la sua passione per l’arte, la sua indipendenza dal padre era stata causa di numerose discussioni, dalle quali non sempre era uscita vittoriosa; ma se arrendersi, era stato difficile, esasperante, impossibile era stato accettare che suo padre scegliesse per lei marito. Non si sarebbe mai sposata senza amore. Quando il genitore l’aveva convocata nello studio per discutere dell’affare un freddo gelido era sceso dentro di lei, ma una forte determinazione l’aveva sorretta; fingendo docilità, aveva assentito al volere del padre, a un matrimonio con un vecchio Conte.Quella stessa notte aveva preparato una piccola valigia, racimolato i gioielli della madre ed era sparita. Aveva vissuto di stento nei bassifondi di Londra fin quando non aveva messo insieme il denaro per imbarcarsi su una nave diretta in Italia; era stata furba, non aveva mai venduto un gioiello, aveva fatto perdere le sue tracce. Quando cinque mesi dopo aveva raggiunto la maturità ed era entrata in possesso dell’eredità della madre, aveva ricominciato a vivere alla luce del sole. Si era persino permessa di scrivere al padre e comunicargli la sua residenza. Non aveva mai ricevuto risposta, fino a qualche mese prima, quando le era giunta una lettera dalla sua matrigna che la informava che Lord Lewiss era in fin di vita e desiderava vederla.Senza pensarci un attimo, aveva atteso il tempo necessario per terminare un lavoro che le avevano commissionato e poi aveva abbandonato tutto, sognando che il padre si fosse redento, che desiderasse chiederle perdono. Giunta a Dover, aveva inviato alla matrigna una lettera con la quale la avvisava del suo arrivo.Dopo un mese di viaggio per mare e per terra era giunta a Londra quella mattina; arrivata alla residenza del padre, il maggiordomo le aveva riferito che la famiglia risiedeva attualmente presso il Duca di Richmond in occasione delle festività natalizie. Aveva chiesto all’imperturbabile James notizie sulla salute del genitore, ma l’uomo aveva risposto con un laconico –Bene-.Poiché Richmond house si trovava a quattro ore da Londra, aveva deciso di proseguire, anche perché la risposta di James la lasciava perplessa: o non aveva voluto preoccuparla ulteriormente, o la lettera che aveva ricevuto celava un tranello. E poiché i misteri la rendevano nervosa, attendere l’indomani l’avrebbe resa troppo ansiosa.Finalmente la carrozza oltrepassò un imponente cancello di ferro. Ai lati della strada alberi secolari segnavano il percorso fino all’ingresso principale, anticipato da un labirinto di siepi intercalate da roseti. Seppur tutto apparisse ammantato in una luce bianca, lo spettacolo era a dir poco meraviglioso. Ricordavano a Sarah i numerosi giardini che fiancheggiavano le dimore italiane in cui aveva soggiornato per il suo lavoro. Un lieve rossore colorò l’incarnato pallido della donna, un ricordo piacevole, peccaminoso la riscaldò. La residenza del Duca di Richmond le rammentava il Castello Rispoli e ciò che in esso era accaduto.Un sorriso birichino rischiarò il volto: stava cominciando a vivere di ricordi, belli o brutti ma ricordi erano. Non andava bene, per niente. Nel frattempo la carrozza aveva circondato il giardino e si era fermata sul davanti. Sarah attese che il cocchiere le aprisse la portiera, ricoprì i lunghi capelli castani con il cappuccio bordato di pelliccia, mise le mani dentro il manicotto e scese.Aveva una figura elegante, sinuosa, sebbene fosse di bassa statura rispetto alla media; ma ciò che attraeva i numerosi corteggiatori erano gli occhi di un intenso colore verde, circondati da ciglia lunghe e setose, occhi intelligenti che scrutavano ogni minimo dettaglio; la bocca era carnosa e rossa, spesso aperta in un sorriso sincero.Il lungo mantello copriva il corpo snello, i seni pieni, la vita sottile.Incedendo con passo esitante, Sarah ebbe il timore di farsi annunciare, era nervosa e preoccupata. Non ebbe neanche il tempo di salire il primo gradino, che già l’antico portone si apriva e un lacchè s’inchinava per darle il benvenuto, poi si diresse verso la carrozza presa a noleggio per ritirare il bagaglio, un baule e due valigie, e congedare il vetturino.Un compassato Maggiordomo, aiutò Sarah a togliersi il soprabito, mentre si presentava. –Milady sono Merrynton, lei deve essere la figlia di lord Lewiss, era attesa. Prego si accomodi-.Sarah seguì l’uomo, guardando appena l’ampio atrio e l’imponente scala di marmo bianco, gli antichi quadri che con la loro grandezza riempivano intere pareti fino al soffitto, le incantevoli decorazioni natalizie che ricoprivano le porte e l’antico corrimano di legno che conduceva al piano superiore. Il cuore le batteva precipitosamente; nonostante fosse gelata, aveva le mani sudate. Due lacchè si apprestarono ad aprire il battente di un’ampia porta; consapevole del bon ton, Sarah attese alle spalle di Merrynton, mentre questi la annunciava, trattenendosi dall’asciugare le mani nel velluto verde del lungo abito stile impero. Sentiva il cuore martellarle nel petto e temeva che l’ampia scollatura, rifinita in pizzo panna, potesse mostrare la sua inquietudine.Quando il maggiordomo si spostò, i suoi occhi frugarono la stanza alla sua ricerca o della matrigna. Non sapeva cosa aspettarsi, chi trovarvi.Il suo sguardo si soffermò su un uomo alto, dall’aspetto elegante che la fissò con uno strano luccichio negli occhi, subito, però allontanò gli occhi e l’attenzione da quel bellissimo individuo e continuò a scrutare tra le persone presenti nel salone. Non appena lo vide, gli si strinse lo stomaco, apparentemente sembrava in perfetta salute, l’aveva nuovamente ingannata. Con passo fermo e deciso, gli si avvicinò; lui vide l’espressione battagliera degli occhi e le andò incontro.«Vi vedo bene Padre, o vi siete ripreso in fretta o forse non eravate per nulla malato. Vorreste spiegarmi?».«Ne riparleremo in una sede più consona». Le disse il padre guardandola in modo freddo.«No. Ne parliamo ora. Non avete ormai alcun diritto su di me. Ho abbandonato tutto per causa vostra». Gli rispose Sarah, chiaramente adirata.«Milady, è un vero piacere avervi con noi. Lord Lewiss non mi presentate la Vostra incantevole figlia?».Facendo presa sul più perfetto garbo, il padre di Sarah fece le dovute presentazioni: «Mia cara, ho l’onore di presentarvi il Duca di Richmond che gentilmente ci ha invitati a trascorrere le festività in casa sua».Sarah tese la mano inguantata verso il Duca, che prontamente la baciò trasmettendole dei piccoli fremiti. Era un uomo affascinante, a prima vista un dandy, ma la muscolatura che s’intravedeva dal vestito nero, indicava un uomo dedito all’attività fisica. «Scusate, ma stavo parlando con mio padre». Neppure le emozioni che la stavano agitando potevano distoglierla da quella conversazione.«So che siete un’artista di fama. Abbiamo una preziosa raccolta di opere d’arte, più tardi mi piacerebbe accompagnarvi». «State cercando di adularmi per distogliermi dal proposito di commettere un omicidio, milord?». Ecco di nuovo il brutto difetto di parlare in modo diretto.Il sorriso del Duca la lasciò senza fiato. «Ci sto riuscendo?».«Solo se io ve lo permetterò…». Che cosa stava facendo? Filtrava con quell’uomo come se lo conoscesse da sempre!«Venite, vi farò accompagnare nelle vostre stanze, si cena fra dieci minuti. Riuscirete a rinfrescarvi?».Impertinente di un uomo. Lo guardò fisso.«Qualcosa vi turba?». «C’è in voi un non so che di familiare….».«Probabilmente mi avrete visto a qualche ricevimento nelle stagioni passate».«Impossibile se vi avessi visto anche solo una volta, mi ricorderei. Non si tratta del vostro viso, quanto dei vostri modi».«Dunque avete un buono spirito di osservazione».Sarah scoppiò a ridere, una risata cristallina, vera, diversa da quella che il bel mondo approvava. «Milord, sono un’artista… se non avessi un buono spirito di osservazione, non potrei svolgere il mio lavoro. Pardon scusate, forse questa parola turba l’abitudine che ha la nobiltà del dolce non far nulla?».L’uomo la incatenò a lui con i suoi occhi neri: «Possibile. Tornando al vostro spirito di osservazione: Se è così ottimo come dichiarate, non credo che troverete strano il fatto che stia per baciarvi».«Come avete detto... ».Le sue dita si posarono in una lieve carezza sulle labbra di Sarah, ben presto sostituite dalla bocca del Duca. Il repentino cambio di argomento aveva fatto spalancare i suoi occhi, che ora al suo contatto, inconsciamente si chiusero, immergendo la giovane donna in un mondo di odori, sensazioni. Il profumo del duca le ricordava quelle di un altro uomo, intimamente conosciuto una sera a un ballo in maschera. Il suo primo uomo. Il sapore di questo bacio tenero le faceva tornare in mente, altri baci appassionati.Quando il Duca staccò le sue labbra, per brevi istanti Sarah non riuscì ad aprire gli occhi. Quando lo fece il suo sguardo, era velato dal desiderio. «Chi siete?».«Un povero uomo che non ha saputo resistere alla tentazione del vischio. Merrynton accompagna milady nelle sue camere».Con un lieve inchino il duca lasciò Sarah alla custodia del maggiordomo, improvvisamente apparso. Turbata dal presente e dal passato, la donna si accorse in quel momento che un ramo di vischio pendeva dal lampadario.La serata si svolse serenamente, Sarah non ebbe il tempo, né la voglia di riprendere la conversazione con il padre, era attratta dalla figura del duca. Guardava furtivamente ogni suo gesto, ogni movimento del corpo: le mani, la bocca, le lunghe gambe. Se Sarah non poteva distogliere gli occhi e il pensiero da lui, il duca non mostrava nei suoi riguardi la minima attenzione. Tranne che in un’occasione, quando ricordò ai suoi ospiti che l’indomani si sarebbe tenuto un ballo in maschera. E mentre lo diceva, la fissò con i suoi occhi azzurri, quasi a volerle comunicare un messaggio nascosto.Nel cercare di capire quello sguardo, la giovane donna non chiuse occhio durante la notte. Ricordò ogni dettaglio di un altro ballo in maschera, di un uomo travestito da diavolo, che l’aveva attratta con la voce, con la sua intrigante promessa di passione; alla quale non aveva potuto resistere, pur consapevole che per lei sarebbe stata la rovina sociale. Rivide ogni momento lussurioso trascorso tra le sue braccia, i corpi intrecciati e nudi alla luce delle candele; il suo viso protetto dalla maschera rossa. Rammentò l’opprimente angoscia che aveva provato nell’abbandonarlo, la mattina dopo. Alle otto Sarah era già in piedi e pronta per scendere; nella sala da pranzo vi erano il Duca e il padre, a entrambi rivolse un cenno del capo; ben presto Milord si allontanò, lasciandoli soli, padre e figlia, dopo aver mangiato la colazione in un silenzio teso, si ritirarono nella biblioteca per parlare.«Non mi dilungherò più del necessario. Questa situazione mi è sgradevole quanto lo è per voi. Siamo rovinati. Non abbiamo più una sterlina».Le parole del padre la lasciarono inizialmente fredda, cosa le poteva importare? Poi però chiese: «Siamo? In che modo sono coinvolta nelle Vostre perdite finanziarie?».L’uomo guardava verso il giardino che s’intravedeva dalla grande vetrata. «Il fondo che vi aveva lasciato Vostra madre è in rosso. Dopo aver perso tutto ho prelevato ogni penny per mantenere la mia reputazione; ho fatto dei debiti a vostro nome».Il disastro di quella notizia la lasciò senza parole. Era rovinata, socialmente ed economicamente. I suoi dipinti avevano un valore di mercato, ma molto blando, le donne non potevano primeggiare con gli uomini. Guardò la schiena del padre, avrebbe voluto scuoterlo; Dio, ebbe persino l’istinto di ucciderlo. «Abbiamo un modo, molto pulito per uscire da questo frangente. Il duca di Richmond si offre di pagare ogni pendenza. A condizione che diventiate sua moglie. È più di quanto abbia mai sperato, considerando la vostra dubbia reputazione».Quest’ultima affermazione la svegliò dall’apatia che l’aveva imprigionata. «Siete soltanto un miserabile, osate criticare il mio modo di vivere, quando voi avete disonorato il nome di mia madre con ogni donna disponibile; avete persino dilapidato il mio patrimonio per i vostri sollazzi. Non acconsentirò mai a queste nozze, il pensiero di voi rovinato sarà la mia gioia».Il padre si girò con molta lentezza, con un mezzo sorriso sulle labbra. «Avreste dovuto ascoltarmi meglio. Io non ho alcun debito, voi siete rovinata…. Pensateci bene prima di rifiutare quest’opportunità». Detto questo la lasciò sola.Sarah rimase nella grande biblioteca, immersa in uno strano silenzio dove a parlare erano solo i suoi pensieri. Era frastornata, come un naufrago in mezzo al mare. L’enormità dei debiti la stava schiacciandola. Che cosa doveva fare?Poi lui entrò. Per un attimo sentì il peso ridursi, perché non affidarsi a lui? No, no, non poteva farlo, aveva giurato che si sarebbe sposata solo per amore. «Perché?», gli chiese con voce roca.Il Duca la fissò con possessività. «Perché vi voglio. E ottengo sempre quello che voglio».Con modestia Sarah, disse: «Volete me…. Perché?».«Accettate la mia proposta?». Non era disposto a dare spiegazioni. Non ancora.«Stasera al ballo, a mezzanotte, annunceremo il nostro fidanzamento. Avete tempo fino a quell’ora per pensarci».Sarah chiuse gli occhi. Sentì la porta chiudersi gentilmente. Sarebbe stata una pazza a rifiutare… lui le stava offrendo un salvacondotto dai debiti, il titolo di duchessa. Ed era un uomo affascinante, ma l’amore? Sarah scosse la testa confusa. Vide l’immagine del suo amante, frapporsi con il viso del duca. Era un uomo rispettabile, conosciuto per la sua filantropia verso i bambini abbandonati. Vide sua madre, il suo dolore quando pensava ai tradimenti di suo padre. Aveva preso la sua decisione.Al ballo erano stati invitati numerosi ospiti, era consuetudine ritirarsi in campagna durante le festività natalizie, così molti erano i nobili che accettarono l’invito del Duca.Nella sua camera Sarah trovò sul letto un magnifico vestito di bianco candido, sulla cui gonna erano impresse gemme scintillanti a somiglianza di gocce di ghiaccio. A completare il vestito una magnifica maschera argentata, che le copriva il viso, lasciando scoperte solo le labbra.Quella sera sarebbe stata la regina delle nevi. Il salone era pieno di gente, un tripudio di colori si muoveva al suono delle arpe e dei violini. Erano presenti tutti i personaggi storici del passato, figure mitologiche, bellissime Afrodite, discinte Diana attiravano l’attenzione degli uomini. Sarah si tenne in disparte, non amava essere al centro dell’attenzione, sebbene lo scintillio del suo abito la rendesse molto visibile. Alcune intrepide giubbe rosse la invitarono a ballare, persino un Luigi XIV. Era nervosa e irrequieta, tra gli innumerevoli uomini che le passavano davanti non aveva riconosciuto il Duca. Dov’era? Avrebbe davvero fatto l’annuncio a mezzanotte? «Vi avrei riconosciuto ovunque, con qualunque travestimento. Il vostro odore mi ha perseguitato in questi lunghi mesi lontani, il ricordo del vostro corpo stretto al mio mi ha tormentato ogni momento. Finalmente vi ritrovo mia lady».Sarah sobbalzò all’udire quella voce roca. Era lui, era il suo diavolo tentatore…. Si volse lentamente: la stessa maschera rossa, lo stesso vestito nero e mantello rivestito di porpora.Lui le prese la mano, la trascinò lontano dalla confusione… la strinse a sé, accostò le sue labbra a quelle tenere di lei. Frastornata Sarah lo lasciò fare, assaporò quel bacio rubato. Bene presto la ragione ebbe la meglio sull’impulso. Lo allontanò decisa. «Chi siete?».«Sono chi vi fa tremare dal desiderio, chi dà gioia al vostro corpo. Sono la vostra tentazione».«Basta, smettetela di prendervi gioco di me… svelate la vostra identità».«Per fare ciò che vogliamo non è necessario… voglio amarvi, voglio sentirvi tremare».La sua testa si abbassò verso di lei, impadronendosi del suo collo. Brividi di eccitazione attraversarono il corpo di Sarah.«No, non vi permetterò di farmi questo. Non sono come mio padre, non lascerò che il desiderio mi renda schiava. State oltraggiando la futura Duchessa di Richmond. Se tornerete a toccarmi griderò».Si volse per tornarsene nella calca. Udì il duca pronunciare il suo nome. O no, forse tutto era perduto. Alzò il viso verso la voce. Il suo diavolo si era tolto la maschera. Il suo diavolo era il Duca. Il viso di Sarah esprimeva sorpresa. Lui le posò le dita sulle labbra. «Shh, dopo parleremo. Abbiamo un annuncio importante da fare».Le tolse la maschera e la baciò teneramente. Sopra le loro teste penzolava uno dei tanti vischi che addobbavano la sala.
NATALIE ST.NICHOLAS (*)
(*) Questo è uno pseudonimo, il vero nome dell'autrice verrà svelato a fine concorso.
...E IL VENTESIMO ( E ULTIMO) RACCONTO...
Dicembre 1968 – Zoélie e Niall
Con un calcio spalancò la porta.Un vento di tramontana aveva spazzato la costa dalla mattina e la pioggia battente non si era data tregua un istante fino a quando, non appena fatto buio, era mutata in ghiaccio. Il mare allora era impazzito di gioia e aveva cominciato ad aggredire di onde nere la scogliera sulla quale si erigeva il cottage.Una folata gelida si insinuò dentro, prima che la porta si richiudesse sbattendo alle sue spalle. Si scrollò di dosso l’ampio tabarro.“Niall McFarlane!” Sbottò il capotavola osservando torvo quel giovane vigoroso, dai lunghi capelli incolti come lingue di fuoco, sopracciglia arcuate e tizzoni accesi negli occhi.“Sei diventato uno straccione. Non ti fai la barba da giorni” Gracchiò la megera seduta a destra. Non aveva nemmeno alzato lo sguardo dal suo piatto di zuppa.Il terzo commensale, grosso quanto un gigante, fece un rutto sonoro e poi bofonchiò “È questo il modo di presentarsi dopo più di cinque anni?”.Emerse all’improvviso al fianco di Niall. Era così bassa e minuta da esser rimasta nascosta per tutto il tempo dietro le spalle di lui.Una manina di porcellana dalle dita affusolate comparve da sotto il mantello e scivolò solerte lungo il suo braccio fino a trovare la grande mano ruvida.Le due mani giunte, guidate da quella di lui, risalirono fino al lembo del cappuccio e lo fecero scendere.Il suo viso era semplice e bello. Petali di rosa le labbra, lapislazzuli gli occhi e una lunga treccia dai mille riflessi blu della notte stellata.“Padre, zia Muriel, fratello Duncan” Recitò Niall rivolto ai tre “Questa è Zoélie”.La zia si alzò di scatto fissando i suoi occhi pallidi addosso alla ragazza, ravviò la folta chioma giallastra, poi raccolse i piatti ormai vuoti del fratello e del nipote. Girò decisa le spalle e si diresse verso la cucina “Sei impazzito!?” Strillò quando già si trovava nell’altra stanza.Anche il padre di Niall stava fissando Zoélie. Si alzò strascicando la sedia sul pavimento di pietra grezza e le si avvicinò.“Quanti anni hai, ragazzina?” Abbaiò a dieci centimetri dal suo viso.Lei abbassò il capo e arrossì appena.“Parla solo francese” Intervenne Niall in sua difesa.Il padre esplose in una fragorosa risata. La ragazza allargò gli occhi ed arretrò di un passo. Niall dovette imporsi di contare fino a dieci prima di reagire, poi oppose la manona contro lo sterno di suo padre “Oh! Non la devi spaventare!” Tuonò per tutta risposta “E comunque ha diciotto anni compiuti ed è mia moglie” Continuò in un sussurro carezzando con il pollice il dorso della manina di Zoélie.“È una bambina!” Intervenne Duncan con la bocca piena di pane e formaggio “Non sopravvivrà all’inverno”.“Scommettiamo?” Grugnì allora Niall. “Sei partito che non avevi ancora diciotto anni” Si trovò a considerare suo padre roteando un bicchiere di Scotch tra le dita.“Sono stato in giro per l’Europa” Con i polpastrelli, lisciava i capelli della dolce Zoélie seduta in silenzio sul suo ginocchio.“A fare che?” Gli chiese il fratello, porgendogli un bicchiere pieno.“Vivere” Gli rispose lui concentrato solo sulle carezze.“E come ti sei mantenuto, figliolo?”.“Ho imparato tanti mestieri. Ma nessuno si poteva dir mio. Ho letto il destino nelle carte e nelle rune, a volte”.“Scellerato! È sbagliato rivelarsi!” Lo rimbeccò la zia.“La gente mica pensa che lo sai fare davvero, Muriel”.“Uhm… Un McFarlane non fa queste cose” Grugnì lei dopo aver tracannato il suo secondo bicchiere “Sei figlio di dee ed eroi” Declamò solenne in un lingua remota.“Dee ed eroi?” La voce di Zoélie tintinnò leggera nell’aria per la prima volta da quando era entrata in quella casa. Gli avevano dato la sua vecchia stanza, rimasta chiusa dal giorno in cui se ne era andato.Muriel aveva consegnato a Zoélie uno straccio, la scopa e il necessario per rifare il letto “Sarà il caso che tu ripulisca questo porcile” Aveva bofonchiato e poi si era richiusa la porta alle spalle.Si era vergognato delle scritte graffite con il temperino alle pareti, del vecchio poster di Brigitte Bardot sopra il letto e della pila di giornaletti volgari posata sul pavimento.Ma Zoélie aveva sorriso e si era messa subito al lavoro e lui non aveva trovato nulla di meglio da fare che sorridere a sua volta e cominciare ad aiutarla.“Domani andiamo al paese. C’è una locanda, ci prendiamo una stanza. Tu non devi stare qui” Sussurrò Niall in francese perfetto gettando i giornaletti nel sacco delle immondizie.“Qui è soltanto per stanotte, lo so. Ma va bene. Non preoccuparti per me”.“Il letto è piccolo. Io dormirò sul pavimento” Fece per srotolare il suo vecchio sacco a pelo.“Scemo! Cosa fai?” La risata in si bemolle di Zoélie placò per un istante la bufera fuori dalla finestra.Gli si avvicinò, distolse la sua mano dal sacco a pelo, la portò alle labbra e la baciò lievemente. I suoi occhi ridevano ancora e Niall se la immaginò come l’aveva vista la prima volta. Piccolina e sottile come un giunco, il mantello e i capelli sciolti alzati in volo dal vento, il profilo sottile contro il grigio del cielo. Lassù in alto, ancora più in alto, sopra il promontorio.Aveva pensato che si sarebbe spezzata nell’euforia delle intemperie di quella limpida giornata d’inverno, mentre la guardava incantato dal lembo di sassi e sabbia, nell’insenatura in cui si era calato a fatica per cercar tesori portati dal mare. E il mare quel giorno era grosso e pauroso. Aveva pensato che si trattasse dell’ultima stella avvistata da un naufrago, quando l’onda gelata del mare lo investì in pieno. L’onda del mare lo prese e se lo trascinò via.Gli occhi blu di Zoélie ridevano quando Niall riaprì i suoi, madido e congelato, ansante, supino sulla roccia piatta alla quale era riuscito ad aggrapparsi strappandosi al furore della burrasca.“Benvenuto in Bretagna, terra d’acqua e di vento, signore” Aveva affermato lei giocosa, quel giorno.“Benvenuta in Scozia, terra d’acqua e di pietra, amore mio” Le bisbigliò lui all’orecchio, quella notte. “Parlami delle dee e degli eroi, Niall” Gli chiese, avvolta dalle sue braccia, nel misero letto singolo di quando era solo uno stupido ragazzino.Le posò un bacio sui capelli morbidi.“Un McFarlane è fatto per esser forte, Zoélie” Esordì obbligandosi a dirlo sottovoce. Ma parole grosse esigono un tono possente, poco adatto all’intimità e alla penombra di una candela posata sul pavimento.“Sì. Forte e bellissimo. Come sei tu, mio Niall” Replicò lei lieve come uno scampanellio.“Erano un ramo cadetto dei Lennox e abitavano molto più a sud, ad Arrochar, nei pressi della foresta di Argyll. Ci sono stato, sai? È stato l’inizio del mio viaggio.Avevano castelli e greggi tra Loch Lomond e Loch Long e c’era un capo Clan, un signore erudito e facoltoso.Ora non c’è più nulla, Zoélie. Ho trovato solo rovine in quella terra verde e rigogliosa che non appartiene più ai McFarlane”.“Perché il tuo Clan cadde in disgrazia, Niall?”.“Siamo ciò che siamo. Figli di dee ed eroi” Rispose lui in un soffio “Su questa costa arrivò uno sparuto nucleo famigliare, un padre e una madre e il loro figlio maschio, accusati di stregoneria. Non vi fu il rogo per loro solo perché il signore del Clan li protesse, ma egli stesso li costrinse all’esilio in questa punta estrema dell’isola. Furono forse i più fortunati, perché, a differenza di molti altri ebbero il privilegio di rimanere nella loro patria. Nei secoli a seguire la famiglia si disfece e conobbe l’infamia e la sconfitta. Fu per il carattere bellicoso dei suoi membri, forse, o per l’incapacità dei loro capi di far le giuste alleanze politiche. Ma è accaduto, questo è quanto. Decimati nelle battaglie e mandati via, sempre. Sempre perdenti e reietti e infine messi definitivamente al bando, i più emigrarono verso l’Irlanda, le Americhe e l’Australia”.“Ma quel giovane invece, venuto qui con i suoi genitori. Lui visse indisturbato, coltivò le proprie doti, si sposò ed ebbe figli”.“Un solo figlio maschio fertile per ogni generazione, da secoli ormai. Comprendi il perché della brutta reazione di mio fratello, quando ci ha visti arrivare, questa sera? Ora è certo che non sarà sua, la discendenza”.“Ha detto che morirò entro l’estate, vero?” Sussurrò intristita Zoélie.Niall tacque, all’improvviso pensieroso.Tremava di freddo quel giorno. L’aveva condotto nella sua casa, profumata di mandorle e zucchero, aveva preteso che usasse asciugamani ricamati freschi di bucato e accettasse una coperta soffice e una bevanda fumante. Aveva acceso il fuoco e gli aveva sorriso con quel sorriso terso ed il gelo era andato via subito tutto.Poi si era seduta sul tappeto ai suoi piedi, con le gambe incrociate e i palmi rivolti al camino “Parlate molto bene il francese, signore”. “Sono portato per le lingue, imparo in fretta. Ho passato qualche mese a Parigi dove ho fatto il falegname. Prima ancora ho vissuto in Provenza. Ero a bottega da uno scultore, laggiù” Si sporse dalla sedia, poggiando il ginocchio a terra per frugare il contenuto della sua sacca da viaggio.“Ecco” Estrasse il pugno chiuso e si avvicinò alla ragazza mentre mille fiammelle danzavano nel suo sguardo.Zoélie rise forte in si bemolle. Poi con le dita forzò quelle di lui, le indusse ad aprirsi e a rivelare il segreto.“Oh!” Esclamò ammirata.Nel palmo di Niall c’era un gattino scolpito con maestria in un sasso di pirite luccicante.“Ho imparato a fare questo” Le spiegò lui, messo in imbarazzo dall’emozione esagerata di Zoélie “La pietra è della mia terra. La Scozia. È tuo, se ti piace”.“Sì” Rispose lei ma il suo viso si era fatto serio serio.Si alzò in fretta da terra, lasciando Niall inginocchiato con il palmo aperto nell’atto di porgerle il dono, e scomparve su per le scale.Un istante dopo riscendeva saltando gli scalini e teneva stretto tra le mani un piccolo libro nero. Rallentò non appena toccato il pavimento, sembrò volersi ricomporre, si lisciò indietro i bei capelli di velluto e sistemò il vestito prendendo un gran respiro.“Avevo meno di cinque anni quando feci questo” Camminava ora lentamente verso di lui e dalle pagine del libro aveva estratto un foglio piegato in quattro.Gli si inginocchiò dinnanzi e distese il foglio con mani tremanti.E Niall vide il disegno di un grande uomo dai fluenti capelli tracciati con la stilografica rossa. Quell’uomo indossava proprio il suo maglione grigio e i suoi jeans tutti sgualciti e calzava sproporzionati stivali di gomma, molto simili a quelli che Zoélie gli aveva appena fatto togliere. Al suo fianco c’era una fatina con piccole ali variopinte e occhi e capelli colorati con la matita blu. Rideva la fatina e dal suo polso pendeva un ciondolo composto da tre spirali che si congiungono in un unico centro.Il Triskell! Niall lo riconobbe subito. Un gioiello della famiglia McFarlane, l’unico ricordo che avesse portato con sé durante il suo lungo vagabondaggio.“Sei tu, allora!” E avrebbe voluto dire ‘Sei tu, l’amore della mia vita! Il tesoro bellissimo che ho cercato sempre!’ Ma le parole d’un tratto erano tutte scomparse.Annuì soltanto, Zoélie.Si erano sposati il giorno dopo di fronte all’oceano, solo prima di partire per la Scozia.Non era servito alcun rito. Erano andati alla spiaggia e avevano raccontato al vento l’emozione profonda che sentivano l’uno per l’altra e il vento aveva risposto loro che avrebbero trascorso assieme il resto della loro esistenza. Poi lui le aveva messo al polso il braccialetto e lei ne aveva raccolto il ciondolo nel palmo e aveva fatto girare la punta dell’indice sulle tre spirali.“Forza infinita, saggezza infinita. Infinito amore” Avevano pronunciato assieme in una lingua dimenticata.Erano partiti in treno e avevano viaggiato tre giorni e tre notti per arrivare fino alla costa del Mare del Nord, dove la famiglia di Niall abitava.Ed ora lui la stringeva tra le sue braccia e gli appariva così fragile e indifesa, in mezzo ai suoi rudi congiunti, diversi in tutto dal padre e dalla madre che l’avevano accolto affettuosi e gli avevano affidato senza remore la loro preziosa Zoélie.“È molto difficile nascere e crescere all’estremo confine del mondo, dove cielo e mare e notte hanno il sopravvento su ogni giustizia umana, dove la terra non produce raccolti, ma solo miti e leggende. Sai Zoélie?” Le disse per scusare l’orribile previsione di suo fratello maggiore “Io non lascerò che ti accada nulla, amor mio”.“Sì” Concluse lei docile sporgendosi per lasciargli un bacio sulle labbra.Svegliarsi al mattino e non trovarla al proprio fianco, fu il dolore più grande che avesse mai provato in tutta la sua esistenza.Gli occorsero alcuni lunghi istanti per riprendere del tutto i sensi. Nel frattempo pensò che la sua vita non avrebbe avuto più alcun significato se fosse stata privata della presenza della sua Zoélie. Ricordò il suo viaggio, le cose viste, i cibi assaggiati, le lingue imparate. Ricordò l’umanità buona e piacevole di coloro con cui aveva incrociato il proprio destino. Ma nulla era come Zoélie, la dolcissima moglie conosciuta solo quattro giorni prima, sposata senza averla mai baciata prima, ma quando infine aveva posato le labbra sulle sue aveva compreso che quello era l’unico luogo in cui avrebbe voluto stare sempre.Ed ora lei non era lì, al suo fianco.Ma poi riuscì ad aprire gli occhi del tutto. Il gattino di pirite lo osservava quieto da sopra il comodino e un profumo buonissimo di mandorle e zucchero riempiva l’aria.Qualcuno aveva aperto le imposte e tolto le tende polverose dalla finestra rivolta ad est. Rimase incantato a rimirare la luminescenza di un cielo dalle mille sfumature di rosso, pronto ad accogliere l’alba.Fece di corsa il lungo corridoio al piano di sopra stropicciandosi gli occhi e tentando invano di ravviarsi i capelli ingarbugliati e sentì il cuore riempirsi di gioia perché il profumo si intensificava via via che si avvicinava alle scale.“Si può sapere dove stai andando così di fretta?” Ringhiò Duncan spuntando dalla porta del bagno.“Hey! Venite giù voi due!” Gridò la zia dal piano di sotto.La trovarono in cucina, seduta al tavolo di lavoro. Stringeva tra le mani un piattino di porcellana del servizio buono e il suo viso non era mai stato così liscio e sereno. I suoi occhi slavati sorridevano beati. E aveva le stesse spalle ricurve e lo stesso sovrappeso del giorno precedente, la stessa chioma crespa e i denti storti, ma stamane era leggiadra come una farfalla.“Brava, tesoro!” Sputacchiò un po’ nel dirlo ma nessuno ci fece caso.Nel centro del tavolo c’era un dolce fragrante di mandorle e zucchero, dal quale era stata tolta una bella fetta.In quel momento anche il padre di Niall entrò in cucina sbadigliando.“Bonjour monsieur” Cinguettò Zoélie con un grande e rinfrancante sorriso. Poi prese un piattino dalla pila posta accanto a zia Muriel e servì una gran fetta di torta anche al suocero.Fece la stessa cosa con il cognato e infine con suo marito.“È un essere speciale!” Blaterò la zia senza mollare la torta.“Guardate là” Duncan indicò la finestra della sala da pranzo “Ha fatto persino uscire il sole!”.Il padre di Niall annuiva deliziato e rideva, per la prima volta nella sua vita, forse, di un riso buono e allegro. Il padre di Niall rideva. Il giorno stesso Niall e Zoélie presero alloggio alla locanda.Lui affittò una piccola officina ai bordi del paese ed espose un cartello ‘So fare di tutto. Basta chiedere’.Zia Muriel dichiarò di aver finito le scorte viveri a casa. Andò al paese per fare provviste e si trattenne molto più del solito. Ad ogni persona che incontrava raccontava del ritorno di Niall e della sua moglie bella, amabile e bravissima a fare i dolci, a portare la gioia e far uscire il sole. E qualcuno pensò che era uscita definitivamente di senno vedendo quell’improbabile sorriso liscio e bonario stampato sul suo viso, ma poi dovette ricredersi quando incontrò di persona Zoélie.E Zoélie rideva beata giocherellando con il gattino di pirite, l’estate successiva, quando Duncan le riferì ciò che la zia andava in giro a raccontare di lei “Non so far uscire il sole, lo giuro!”.“Non tu. Ma qualcuno tra i nostri eredi lo farà, amore mio” Replicò Niall e si capiva bene che non lo diceva così per dire.Ma questa è un’altra storia.
EPIPHANY (*)
(*) Questo è uno pseudonimo, il vero nome dell'autrice verrà svelato a fine concorso.
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Si potrà continuare a votare per i racconti della nostra rassegna fino al 14 gennaio 2011 (e a commentare i racconti per vincere i nostri regali di Natale fino al 6 gennaio 2011.)
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