Marlowe non era certo uno stinco di santo. Nel suo curriculum aveva vari arresti per rissa (in una ci scappò il morto) e spaccio di monete false. Ma soprattutto, aveva una lunga frequentazione con gli ambienti dei servizi segreti della Regina, ancora in fibrillazione per le contese tra Anglicani e Cattolici. Erano gli anni della decapitazione di Maria Stuarda e dell’impresa di Charles Howard e Francis Drake contro l’Invecible Armada. Marlowe iniziò a collaborare con i servizi segreti già dai tempi universitari, a Cambridge, come conferma una lettera inviata al rettore e controfirmata da eminenti personalità politiche e religiose, con la quale si chiedeva di mettere a tacere le voci di una missione del drammaturgo a Reims e di non ostacolare il prosieguo del suo corso di laurea.
Nel 1587, fresco di laurea, Christopher si stabilì a Londra ed iniziò la sua breve e folgorante carriera teatrale. Dopo la stesura della tragedia Didone, la regina di Cartagine, probabilmente a quattro mani con Thomas Nashe e già compiuta prima di arrivare a Londra, Marlowe ottenne un clamoroso successo nello stesso 1587 con Tamerlano il Grande, tanto da mettersi subito al lavoro per scrivere la seconda parte della Tragedia. Nei 5 anni che seguirono, il drammaturgo compose altri quattro lavori per il teatro ( La tragica storia del Dr. Faustus, L’ebreo di Malta, Edoardo II e Il massacro di Parigi), un poemetto lasciato incompiuto (Ero e Leandro) e le traduzioni in inglese del Pharsalia di Lucano e degli Amores di Ovidio.
Il teatro di Marlowe fu portatore di tutte le grandi innovazioni che vennero sviluppate mirabilmente da Shakespeare, suo amico e coetaneo, il quale spesso fece riferimento a lui, in maniera più o meno esplicita, nei suoi lavori. Sotto l’aspetto stilistico, Marlowe portò alla perfezione il blank verse, il verso sciolto derivato dall’endecasillabo italiano, introdotto nella letteratura inglese da Howard pochi decenni prima e destinato a caratterizzare le letterature nordeuropee fino all’ottocento. Una poetica possente ma priva di eccessi retorici, una lingua capace di attingere dai classici come dalle bettole più infime, furono le stigmate, oltreché del genio, del profeta del miracolo elisabettiano.
Ma furono soprattutto i personaggi creati a fare di Marlowe un gigante del teatro di tutti i tempi. Personaggi dominati da una irrefrenabile volontà di potenza, titani neri come la pece, machiavellici trionfatori destinati alla sconfitta finale, divorati dalla loro stessa fame cannibalica. Machiavelli, appunto: non solo aleggia in tutto il teatro marlowiano (nella sintesi didascalica che si poteva avere nella Londra di quei tempi), ma addirittura compare, come un preventivo deus ex machina, a recitare il prologo ne L’ebreo di Malta.
Ma i personaggi di Marlowe non giustificano i mezzi con la ragion di stato, non hanno nulla del principe autoritario, ma lungimirante, colto e illuminato. La loro unica giustificazione è l’avidità. Per Tamerlano è la fame insaziabile di conquiste territoriali e di sangue; per Faust (uno dei grandi archetipi della modernità, al quale Marlowe per primo diede dignità artistica) è dapprima una sete di conoscenza, altrettanto insaziabile in quanto tendente all’assoluto, di conseguenza abiurata in favore di un’orgia lunga ventiquattro anni, pagata con la propria anima; per Barabba, l’ebreo di Malta, è una sete di vendetta e di accumulo di ricchezza. Per tutti, si tratta di sprofondare nel gorgo generato dalla fede cieca nel proprio arbitrio, elevato a unica legge morale.
Così come per i protagonisti delle altre opere, a questi geni del male non si contrappongono eroi positivi altrettanto forti, ma agiscono su una scena già di per sé corrotta e proprio per questo assumono dimensioni titaniche. Il senso etico in Marlowe è limitato alle convenienze teatrali. A lui interessa catturare le dinamiche della volontà di potenza nelle sue peggiori degenerazioni, interpretarle, comprenderle, ma di certo non giudicarle.
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