Siamo già arrivati alla quinta intervista che gli autori presenti al Chronicae – Festival del romanzo storico hanno rilasciato alla nostra Bee.
L’ordine di pubblicazione segue sempre quello in cui sono saliti sul palco: Jason Goodwin (intervista QUI), Simone Sarasso (intervista QUI) e Andrea Molesini (intervista QUI), Roberto Bui alias Wu Ming 1 (intervista QUI), Marcello Simoni e Carlo Adolfo Martigli, Valerio Massimo Manfredi.
Foto di Alessandro Magagna
Marcello Simoni: laureato in Lettere, è stato archeologo e bibliotecario; ha scritto numerosi saggi storici e racconti. Con Newton Compton ha pubblicato la Trilogia del Mercante di reliquie – Il mercante di libri maledetti (2° libro più venduto in Italia nel 2011 nonché vincitore, tra gli altri riconoscimenti, del Premio Bancarella 2012), La biblioteca perduta dell’alchimista, Il labirinto ai confini del mondo – L’isola dei monaci senza nome (Premio Lizza d’oro 2013), L’Abbazia dei cento peccati e I sotterranei della cattedrale.
L’intervista inizia nel piazzale di fronte al teatro, sotto il sole di fine pomeriggio dell’ultimo giorno di Festival, domenica 19 aprile. Marcello non fa in tempo ad arrivare che Bee gli si avvicina per fargli le domande. Lui accetta volentieri, anche se manca meno di mezz’ora all’inizio del dibattito che lo vedrà sul palco e anche se gli tocca stare in piedi. La sua voce pacata, suadente e rilassante è un toccasana dopo giorni di frenesia. Peccato non potervela far sentire.
È scrivere – Quali sono i motivi per cui hai scelto di dedicarti al genere storico?
Marcello Simoni – È stata una scelta quasi naturale. Da ragazzino volevo dedicarmi alla scrittura di romanzi horror, perché ero innamorato di Poe, di Lovecraft, di Dylan Dog – tra l’altro una delle mie grandi passioni era anche il fumetto, per cui sono rimasto indeciso per molto tempo tra due sogni: diventare scrittore di romanzi o fumettista – poi con il tempo mi sono legato particolarmente al Medioevo. Dopo la laurea ho eseguito degli scavi archeologici, ho svolto dei lavori in biblioteche, lavori di saggistica, perciò mi sono sempre più avvicinato all’area non solo della storia, ma anche della bibliofilia, l’amore per i libri. Perciò con il tempo ho deciso di fondere entrambe le cose – la passione per la scrittura, per la narrativa, e la passione per i dati della storia a livello saggistico, a livello nozionistico – e approdare a un esperimento narrativo, che sto portando avanti romanzo dopo romanzo, perché ogni libro cerco di renderlo il più fluido possibile e soprattutto in ogni libro cerco di far dimenticare al lettore che si tratta di un romanzo storico. Cioè, devi entrare nella storia senza trovare alcun genere di nozione.
È – Che il libro non sia… palloso, diciamo.
MS – Esatto, che non sia palloso. *ridono* Ci sono alcuni romanzi, anche di grossi autori, in cui percepisci chiaramente quando l’autore sta lasciando il filo narrativo e sta inserendo nozioni.
È – Quelli che sembra ti vogliano insegnare qualcosa!
MS – Esatto. Naturalmente il mio primo romanzo ha di questi elementi, perché ero ancora uno scrittore alle prime armi, cercavo di approcciarmi a un genere che era nuovo, che aveva comunque tante possibilità di sviluppo; con il tempo sto cercando sempre di più di esorcizzare questo che è un po’ lo spauracchio di tutti i narratori.
*nel frattempo il vento si è alzato, così Bee, Marcello e gentile consorte si spostano all’interno del teatro, per non morire di freddo e per sedersi. Durante il tragitto tutte le persone che incrociano lo salutano, gli stringono la mano, gli fanno i complimenti*
È – Tutti che ti dicono sei un grande, che bello il tuo libro… che sensazione dà?
MS – Beh, è molto bello, anche perché soprattutto ti rende consapevole del fatto che non scrivi delle schifezze. *ridono di gusto*
È – Dunque, dove siamo arrivati? Ecco: quanto è importante una documentazione accurata per poter scrivere un buon romanzo storico?
MS – Beh, è molto importante, non solo per dare fondamento alla storia. Io spesso mi documento anche in fase di scrittura, anche quando so già tutto quello che devo mettere nel libro; innanzitutto perché qualche dettaglio da approfondire salta sempre fuori, e poi perché durante le fasi di documentazione puoi avere delle suggestioni che ti spingono a sviluppare la storia verso canali che non avevi previsto. Perciò è doppiamente importante. Anche in questo caso: la documentazione è importante, però deve sempre trasparire pochissimo. Cioè tu devi far vivere al lettore la storia, senza fargli capire che hai letto tanti libri.
È – Sì, senza la lezioncina.
MS – Perché alla fine questa pesantezza concettuale può andare a guastare la storia.
È – Credi sia indispensabile recarsi nei luoghi di cui si vuole scrivere?
MS – Mah, Salgari non lo faceva, non lo faccio neanche io. *ridono* Ci sono luoghi che conosco, per esempio L’Abbazia dei cento peccati e i due romanzi che seguiranno questo primo volume riguardano l’Abbazia di Pomposa, che conosco molto bene – sull’Abbazia ho scritto anche diversi saggi storici riguardanti l’iconografia, la pittura del ‘300, il Ciclo apocalittico, dunque qui possiamo dire che gioco in casa – però non cambierebbe nulla se dovessi parlare di una zona o di una città che non conosco bene, perché ci sono i libri. Attraverso i libri, attraverso le fonti del periodo, attraverso anche i dati d’archivio e l’iconografia riuscirei comunque a costruire una storia credibile.
È – E se dovessi vedere com’è fatto un edificio c’è sempre Google Earth.
MS – Certo, c’è anche quello. Da prendere con le pinze, però, perché spesso l’urbanistica non coincide con quella di una volta. Bisogna stare molto attenti.
È – Eh, perché c’è il problema che voi scrivete libri storici. Se scriveste libri attuali… *ridacchia*
MS – Guarda, L’Abbazia dei cento peccati è ambientato in una Ferrara del 1300 che è diversissima rispetto a quella che abbiamo oggi, perciò ho dovuto per buona parte basarmi su uno schizzo della città tracciato da Bartolino da Novara, che si trovava a Ferrara alla fine del ‘300; dunque ho potuto vedere com’erano disposte le strade, le chiese, le piazze in modo da dare credibilità alla storia.
È – Qual è la differenza tra scrivere un romanzo e scrivere un saggio? Uno dei due è più facile?
MS – Il romanzo è più difficile. Il saggio è quasi automatico, perché fai la tua ricerca, trai le tue conclusioni, scrivi tutto senza curarti di essere o non essere noioso. Il saggio è la risoluzione di un problema, e quando tu sei arrivato a dimostrare queste cose sei a posto, hai finito il tuo lavoro. Il romanzo deve essere intrigante, il romanzo deve essere incalzante, perciò in ogni pagina devi trovare qualcosa che spinga il lettore a proseguire nella lettura. Ecco perché è più difficile. Però c’è anche più soddisfazione, perché il romanzo anche in fase di scrittura ti coinvolge, ti spinge ad andare avanti a scrivere, non solo a leggere.
È – Ti diverti anche a farlo.
MS – Infatti. Quando riesci a infilare questo ritmo vuol dire che hai preso la giusta strada, la giusta direzione.
È – Quanto deve esserci di reale in un romanzo storico? Come decidi quanto spazio dedicare alla realtà storica e quanto invece al mondo di fantasia che crei?
MS – Direi un buon 50%, nel senso che tutta l’impalcatura storica deve essere documentata. Quando descrivi una strada, o un edificio, deve corrispondere ai canoni del periodo, deve essere credibile con quello che accadeva, perciò tutto questo deve essere documentato. Devi entrare soprattutto – ed è ancora più difficile – nella mentalità dell’epoca: non basta costruire una casa secondo i canoni dell’epoca, descrivere com’erano vestite o acconciate le persone, devi anche cercare di capire cosa pensava un uomo, quali erano le nozioni che aveva, qual era la sua percezione del mondo, cioè fino a che punto si sapeva delle guerre, delle battaglie, delle epidemie che si svolgevano magari non lontanissimo, che però arrivavano di rado.
È – O dopo mesi e mesi.
MS – Non c’erano i giornali, non c’era il telefono, non c’era la televisione, bisogna tenerne conto. Quando hai costruito tutto questo puoi creare la fiction, cioè costruire un gioco di prestigio che avvolge la tua storia. All’interno di questo grande teatro che costruisci, dove tutto corrisponde al vero, fai muovere i tuoi personaggi. Io mi diverto anche a far interagire i miei personaggi con persone realmente esistite, per dare ancora maggior consistenza alla storia, per cercare di farli passare attraverso eventi reali e dare quasi l’impressione che questi personaggi abbiano lasciato una traccia in quello che è accaduto realmente. Quando riesci in questo direi che sei a buon punto.
È – Tre romanzi storici che bisogna leggere almeno una volta nella vita, esclusi i tuoi.
MS – È molto difficile, anche perché io non sono un lettore di romanzi storici, leggo praticamente tutto fuorché quelli.
È – Come mai?
MS – Sono un amante della fantascienza e del giallo. Perciò romanzi storici, vediamo… direi assolutamente Q di Luther Blissett, che oggi conosciamo come Wu Ming.
È – Non sei il primo che lo cita tra gli indispensabili.
MS – Poi la trilogia di Magdeburg di Altieri e i romanzi di Alfredo Colitto.
È – Non lo conosco.
MS – Un grande scrittore storico.
È – Fortuna che non li leggevi! * ridono* Hai citato nomi per nulla scontati.
MS – Cerco di leggere un po’ di tutto di quello che fanno i colleghi.
È – Il libro che presenti oggi (L’Abbazia dei cento peccati, NdR) è il primo di una saga. Da quanti volumi sarà composta?
MS – Tre volumi, di cui il secondo uscirà il 2 luglio: L’Abbazia dei cento delitti. Trovi già la cover online.
È – Cento peccati, cento delitti… e il terzo?
MS – Cento inganni. *ridacchiano*
È – Come decidi la struttura di una saga? Come pianifichi la trama dei libri che devi ancora scrivere?
MS – Allora, ci sono vari metodi. Io ho degli amici scrittori che organizzano degli schemi enormi, che appendono poi alla parete, dove tutto succede, tutto è segnato… io tengo tutto a mente. *Bee spalanca gli occhioni, la moglie annuisce sorridendo* Adesso sto portando a termine il secondo in base a cose che ho in mente, cioè metto per iscritto soltanto gli appunti storici. Man mano che vado avanti nella scrittura, man mano metto su carta. Conosco già i punti fermi, anche di quello che accadrà nel terzo romanzo, però tutto quello che accade intorno è nebuloso finché non ci arrivo, perché in fase di scrittura vengo assorbito in una sorta di processo-domino, con cause ed effetti che mi portano quasi naturalmente ad alcune svolte importanti della storia. Mi diverto di più, perché ogni volta che inizio a scrivere una nuova pagina non so che cosa accadrà.
È – Ti capisco! Ogni scena chiama quella dopo.
MS – Infatti. Per esempio, so che a un certo punto un mio personaggio verrà imprigionato…
È – Ma non sai come, quando, perché.
MS – Esatto! E non so neanche come si libererà.
È – Hai solo l’idea, e poi boh.
MS – Sì, io lavoro in questo modo. Naturalmente non sono un pazzo, so già più o meno dove andrò.
È – Sì, tanti scrittori fanno così. Vengono definiti pantser.
MS – A me piace molto l’improvvisazione, anche a livello musicale.
È – Suoni?
MS – Suonavo tempo fa la chitarra elettrica, però apprezzavo molto, e apprezzo ancora oggi i chitarristi – i superchitarristi – che sanno che devono riempire una certa durata del brano con un’improvvisazione, conoscono la tonalità, conoscono il ritmo, sanno più o meno quanto deve durare l’assolo, però fino a un momento prima non hanno idea di cosa eseguire. Questo ti aumenta anche l’adrenalina, l’aspettativa, non vedi l’ora di arrivare in quel punto per metterti alla prova.
È – Secondo te per quale motivo il genere storico vede spesso l’uscita di trilogie o saghe?
MS – Io penso che il romanzo storico sia qualcosa di molto difficile da scrivere, e che richieda più spazio rispetto a un romanzo normale. Perché, anche quando si tratta di un semplice thriller, tu non stai descrivendo soltanto una trama, la storia di un delitto, di un mistero che va svelato: stai anche parlando di un’epoca storica, e anche se indirettamente devi comunque portare una sorta di rispetto per quest’epoca storica, non devi prenderla sottogamba. Io in questo romanzo parlo di Maynard de Rocheblanche, parlo di una serie di peripezie di questi personaggi, però parlo anche della storia di una città, che è Ferrara, e di una Abbazia, che è Pomposa, che in questo secolo, nel giro di pochi anni, cresce e diventa una cosa differente; perciò devo mostrare il giusto rispetto anche a questa cosa, perché credo che certi risvolti della storia, se rappresentati in un certo modo, possano appassionare i lettori. Così è stato almeno per quanto riguarda il primo volume, perché L’Abbazia dei cento peccati è andato molto bene e sono assillato da followers che mi chiedono quando uscirà il secondo.
È – Com’è stato vincere il Premio Bancarella?
MS – Un grande entusiasmo, una grande felicità, anche perché ero tra i finalisti ed ero andato là soprattutto per imparare. Non pensavo che avrei vinto io, anche perché io ero al primo romanzo, all’epoca, e c’era gente che era già molto scafata e molto navigata nel mestiere. In seguito alla vittoria, dopo questo grande entusiasmo, questa felicità, è subentrata anche la consapevolezza di non poter più scrivere c***te, perché dopo aver vinto il Bancarella ogni volta che ti metti di fronte al computer devi prendere atto di chi sei, del risultato che hai raggiunto, e perciò devi continuamente cercare di migliorare te stesso. Mi ricordo che la prima cosa che ho fatto dopo aver vinto è stato leggere la lista degli scrittori che avevano vinto prima di me, e questo mi ha un pochino messo nell’ordine di idee che non potevo più prendere la scrittura sottogamba.
È – Eri diventato uno scrittore vero, dovevi scrivere davvero.
MS – Esatto.
È – Quindi più ansia che gioia?
MS – Mah, penso che una non ci sia mai senza l’altra, che comunque si compenetrino. E dunque… va bene così. *sorride*
È – Come hai iniziato a muovere i primi passi? A chi ti sei rivolto, quali vie hai seguito? Insomma, da totale esordiente al Bancarella, come ci sei arrivato?
MS – Con una serie di capitomboli, direi, perché nessuno ti insegna a diventare scrittore. Io ho iniziato per passione, mi piaceva scrivere, ho voluto provare questo esperimento, ho voluto provare a vedere fin dove riuscivo a spingermi; un po’ per caso ho trovato una casa editrice che credeva in me, un po’ per caso ho iniziato a pubblicare all’estero. Dopo per quanto cerchi di organizzarti, cerchi di capire come funziona il meccanismo, cerchi di inserirti in quello che è una sorta di andamento editoriale – del mercato, della scrittura, della narrativa, anche di un ordine di idee – le cose non dico che capitano per caso, però comunque ti succedono intorno. La cosa più importante è tenere le orecchie alzate e cercare di capire quando ti si sta presentando un’occasione. Perché l’occasione penso che si presenti a tutti, la vera fortuna non è che ti si presenti l’occasione, la vera fortuna è riconoscerla e capire che quel treno lo devi prendere.
È – Non è neanche fortuna…
MS – Esatto. Il colpo di fortuna c’è, ma fino a un certo punto. Devi riuscire a riconoscerla e agguantarla. Per il resto io devo tanto al mio editore, perché ha iniziato ad avere fiducia in me, ha creduto in me, ha creduto nel progetto narrativo che di volta in volta gli proponevo – perché ogni volta che esce un nuovo romanzo propongo un’idea che poi viene accettata, dunque devo ringraziare per la fiducia. Devo ringraziare la mia agenzia letteraria, che mi aiuta a mantenere i piedi a terra.
È – Con chi lavori?
MS – Con la Natoli Stefan & Oliva di Milano. E poi devo ringraziare mia moglie, anche lei cerca un po’ di tenermi con i piedi per terra, perché naturalmente quando si tratta di fare delle scelte si parla a casa, visto che di fatto questo è il mio lavoro e devo cercare di portarlo al meglio.
È – Sulla tua carta d’identità c’è scritto “scrittore”?
MS – Penso ci sia ancora “impiegato” o qualcosa del genere. *ridacchiano*
È – Bisognerà cambiarla!
Moglie – Sulla carta d’identità sei anche celibe. *scoppiano a ridere tutti e tre*
È – Che consigli daresti a chi vuole cimentarsi nello scrivere un romanzo storico?
MS – Allora, innanzitutto uno che vuole diventare scrittore deve togliersi dalla testa l’idea di diventare ricco!
È – Questa risposta non piace agli esordienti, anche se è assolutamente vera.
MS – Dopo Ken Follett e Stephen King, soprattutto in Italia, è difficilissimo. Dunque uno non pensi di voler fare lo scrittore, di diventare ricco, di fare successo subito. È una cosa molto dura. Si intraprende questo mestiere perché piace scrivere, perché senti che hai qualcosa da comunicare agli altri. E devi anche sapere che il mercato oramai è quello che è: ancora una volta, soprattutto in Italia, le cose non vanno benissimo; adesso poi che ci sono dei grossi movimenti editoriali probabilmente diventerà ancora più difficile per un esordiente cercare di emergere. Dunque bisogna essere convinti di quello che si fa, bisogna essere motivati, e soprattutto bisogna imparare a incassare tantissimo. Non è che scrivi il primo romanzo e con il primo romanzo fai un bestseller.
È – Che è quello che sperano tutti.
MS – Esatto. Molto probabilmente invece il primo romanzo resterà nel cassetto per anni, per decenni, e nel frattempo devi lavorare a qualcos’altro. Perciò tanta costanza e pensarci bene! Pensarci bene perché la scrittura comunque ti occupa tanto tempo, ti assorbe, diventa una parte della tua vita, e se non sei convinto di quello che stai facendo potresti anche incassare troppa frustrazione e iniziare a odiare quello che fai. Perciò pensiamoci bene, anche perché sì, ci sono tanti esordienti pieni di talento che meriterebbero di essere pubblicati, ci sono però anche tanti esordienti che probabilmente dovrebbero fare altro.
È – *annuendo come una forsennata* Questa posso scriverla?
MS – Questa puoi assolutamente scriverla, perché c’è tanta gente piena di talento che merita di emergere, però c’è anche chi intraprende un lavoro – che può essere un semplice lavoro quotidiano, come il pizzaiolo, come il fornaio, come il muratore, oppure possono esserci mestieri d’arte, così li chiamano, come il pittore, il cantante, il musicista – e spesso si trova gente che non è meritevole di svolgere quel mestiere. Occupando, tra l’altro, spazio che dovrebbe andare a chi invece meriterebbe di emergere. Anche assediare le case editrici con manoscritti di esordienti fa sì che magari chi merita veramente non venga notato, perché viene immerso in questa marea di gente che suppone di essere meritevole anche quando non lo è.
È – Le domande sarebbero finite, ma mi è venuta una curiosità: quante ore al giorno scrivi?
MS – Cerco di tenere gli orari di ufficio. Io scrivo e basta, quando non faccio presentazioni, perciò inizio a scrivere verso le dieci, dieci e mezza la mattina, pausa pranzo…
È – Dieci? Che ufficio sarebbe?
MS – L’ufficio in cui Marcello Simoni si sveglia tardi alla mattina. *ridono* Dopo però continuo, a volte continuo anche fino alle otto di sera, magari a volte smetto alle sei o alle cinque del pomeriggio, a volte invece vado a oltranza se c’è qualcosa che mi preme di mettere su carta, perché magari ho il timore che il giorno dopo posso essermela dimenticata, devo almeno buttare giù l’idea prima che sia troppo tardi.
Qui salutiamo il gentilissimo e affabilissimo autore, atteso sul palco per un dibattito di cui parleremo nel reportage dedicato al Festival, che potrete leggere sul prossimo numero di È magazine. Lo ringraziamo ancora per il tempo che ci ha dedicato e diamo appuntamento a tutti voi con la prossima intervista, la penultima di questo ciclo: Carlo Adolfo Martigli.
La nostra inviata:
Bee
Chi sonoEx miope, ex maestra, ex fumatrice, ex ragazza di parecchi idioti… so cosa sono stata, purtroppo non riesco ancora a vedere cosa sarò. Intanto leggo, scribacchio e perdo tempo. La parola che scrivo più spesso: MA.