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Ci sarà il reddito minimo nel Jobs Act?

Creato il 06 marzo 2015 da Propostalavoro @propostalavoro

Ci sarà il reddito minimo nel Jobs Act?Piano – forse troppo – piano, il mosaico del Jobs Act si sta componendo. Dopo il contratto a tutele crescenti, a quale parte della riforma toccherà entrare in uno dei decreti attuativi previsti? Forse, le ultime news potrebbero darci un indizio: è di pochi giorni fa, infatti, la notizia che il Movimento 5 Stelle, per bocca del suo leader Beppe Grillo, si è detto disposto al dialogo con il PD di Renzi, per quel che riguarda riforma Rai e soprattutto, reddito minimo (anche se i grillini parlano di reddito di cittadinanza).

Il tema è interessante e fortemente legato alla riforma del lavoro, essendo il reddito minimo uno dei capisaldi della flexicurity, modello tanto caro al Premier. Tra l'altro, non si tratterebbe, nemmeno, di partire da zero, essendo già presenti in Parlamento due proposte di legge sull'argomento: una presentata dai grillini, l'altra dal tandem Gruppo Misto-SEL.

In verità, le due proposte risalgono al 2013, ma poche settimane fa, proprio in occasione del dibattito sul Jobs Act, sono state rispolverate e portate nelle aule della Commisione Lavoro. Un tempismo cui si aggiunge anche quello di Tito Boeri, attuale Presidente dell'INPS, che, in un'intervista rilasciata pochi giorni fa al Corriere della Sera, auspica l'introduzione del reddito minimo nel nostro ordinamento, come mezzo per contrastare l'impoverimento dei lavoratori atipici e contrastare la precarietà.

Sul tema, però, il Premier resta piuttosto ambiguo: a parole ha sempre sostenuto la necessità di fare del reddito minimo un elemento integrante della sua riforma; nei fatti, invece, non sono mai stati fatti passi avanti in questa direzione, tant'è vero che gli unici ammortizzatori sociali, inseriti nel Jobs Act, sono NASPI, ASDI  e DIS-COLL.

Eppure, è proprio il reddito minimo a fare la differenza tra precarietà e flessibilità: un lavoratore è flessibile quando, rimasto senza occupazione, riceve dallo Stato non solo un sussidio (in alcuni Paesi come Germania ed Inghilterra, per esempio, lo Stato paga anche affitto e bollette), ma anche un sostegno attivo nella ricerca di un nuovo posto di lavoro. Un lavoratore è, invece, precario quando, rimasto senza occupazione, riceve dallo Stato un sussidio e viene poi abbandonato, in balia di se stesso e dei capricci del mercato del lavoro.

Ecco qui la differenza tra l'osannato sistema nordeuropeo e quello italiano: in Italia, alle politiche attive per il lavoro – cioè, i provvedimenti che mirano a creare lavoro -, vengono dedicate le briciole (un misero 1,9% di risorse destinate ai Centri per l'Impiego), a differenza di Paesi come la Germania (che spende il 18,8% delle sue risorse per i suoi Centri per l'Impiego).

Il risultato? L'Italia ha un tasso di disoccupazione del 13% circa, la Germania del 7%. E non si usi la scusa che la Germania è più ricca: l'Italia, infatti, spende l'8,5% del suo budget per le politiche sul lavoro in incentivi alle assunzioni; il triplo dei tedeschi, segno che i soldi ci sono, ma vengono spesi male.

Ecco, allora, da dove può cominciare quel cambio di mentalità e di cultura, auspicato dal nostro Simone nel suo precedente articolo: a che serve spendere risorse in ammortizzatori sociali, se allo stesso tempo, non si sostengono, con criterio, delle politiche attive per il lavoro? Nei Paesi del Nord Europa il disoccupato non riceve solo il sussidio, ma viene anche seguito, aiutato e sostenuto, passo dopo passo, nella ricerca attiva di una nuova occupazione.

In Italia, tutto questo non avviene. Ecco perchè, nel nostro Paese, la flessibilità si è trasformata in precarietà ed ecco perchè sono necessari sia il reddito minimo che la riforma dei Centri per l'Impiego, molto più dello stesso contratto a tutele crescenti.

Danilo


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