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«Gli atti sono frutto dell'invidia, si capirà perché la lotta politica, nella sua espressione ultima, si riduce ai calcoli e alle manovre atti ad assicurare l'eliminazione dei nostri concorrenti o dei nostri nemici. Volete colpire giusto? Incominciate col liquidare tutti coloro che, pensando secondo le vostre categorie e i vostri pregiudizi e avendo percorso al vostro fianco la stessa strada, sognano necessariamente di soppiantarvi o di abbattervi. Sono i più pericolosi fra i vostri rivali; limitatevi a loro, gli altri possono aspettare. Se mi impadronissi del potere, la mia prima cura sarebbe quella di far sparire tutti i miei amici. Procedere diversamente significherebbe sciupare il proprio lavoro, screditare la tirannide. Hitler, competentissimo in materia, diede prova di saggezza sbarazzandosi di Roehm, l'unica persona cui desse del tu, e di un gran numero dei suoi primi compagni. Stalin, per parte sua, non fu certo da meno, come testimoniano i processi di Mosca […]Per tornare ai nostri amici, oltre alla ragione invocata per farli sparire, ce n'è un'altra: conoscono troppo i nostri limiti e i nostri difetti (l'amicizia si riduce a questo e niente di più) per conservare la minima illusione sui nostri meriti. Ostili, inoltre, alla nostra promozione al rango di idoli, alla quale l'opinione pubblica sarebbe invece ben disposta, preposti alla salvaguardia della nostra mediocrità, delle nostre dimensioni reali, essi sgonfiano il mito che ci piacerebbe creare sul nostro proprio conto, ci inchiodano alla nostra esatta figura, denunciano la falsa immagine che abbiamo di noi stessi. E quando ci dispensano qualche elogio, vi mettono tanti sottintesi e tante sottigliezze che la loro adulazione, a forza di circospezione, equivale a un insulto. Ciò che essi auspicano in segreto è il nostro cedimento, la nostra umiliazione e la nostra rovina. Assimilando il nostro successo a un'usurpazione, riservando tutta la loro lucidità all'esame dei nostri pensieri e dei nostri gesti per proclamarne il vuoto e non diventano clementi se non quando incominciamo a discendere la china. Ed è così viva la loro premura dinanzi allo spettacolo del nostro crollo che ci amano allora realmente, s'inteneriscono sulle nostre miserie, fuggono le loro per condividere le nostre e pascersene. Durante la nostra ascesa, ci scrutavano senza pietà, erano obiettivi; ora si possono permettere l'eleganza di vederci diversi da come siamo e perdonarci gli antichi successi, persuasi come sono che non ne avremo di nuovi. E tale è il debole per noi che spendono la maggior parte del loro tempo per occuparsi delle nostre anomalie ed estasiarsi alle nostre carenze. Il grande errore di Cesare fu di non diffidare dei suoi, di coloro che, osservandolo da vicino, non potevano ammettere che si richiamasse a un'ascendenza divina; essi rifiutavano di divinizzarlo; la folla accettava, ma la folla accetta tutto. Se si fosse sbarazzato di loro, Cesare avrebbe conosciuto, invece di una morte senza fasto, un'apoteosi prolungata, superba deliquescenza su misura di un vero dio. Nonostante la sua sagacia, egli aveva delle ingenuità, ignorava che i nostri intimi sono i peggiori nemici della nostra statua».E. M. Cioran, Storia e utopia, Adelphi, Milano 1982 (pag. 59-63; traduzione di Mario Andrea Rigoni).Ringrazio Luigi Manconi («Parole di Mieli», Il Foglio 9 novembre 2010), il quale mi ha permesso di ripensare a questo brano. In chiusa del suo articolo egli dice: «Ci vorrebbe un amico». No. Io credo ci vorrebbe una statuina. Della Madonnina.
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