“Ciao Bella”, così il giornale economico tedesco Handelsblatt titola sulla fuga della Fiat dall’Italia per aprire la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna. E aggiunge che da tempo la produzione dell’azienda torinese nel Bel Paese si era drammaticamente ridotta sia per la mancanza di nuovi modelli e nuove idee che per l’assenza di una visione industriale. Poi conclude: ”Realizzare prodotti a basso costo in Italia non ha praticamente futuro. E’ duro, ma e’ vero”.
Chi legge questo blog forse ricorda molto bene quanto sia stata stigmatizzata la sgangherata idea del finanziere Marchionne di lasciar marcire i gioielli del gruppo con i loro modelli ad alto valore aggiunto che avrebbero dovuto essere affinati e incrementati per ridursi a far battaglia sulla Panda e in ultimo dedicarsi all’assemblaggio di pezzi Chrysler. Una tecnica suicida accelerata dall’euro che richiederebbe ben altri prodotti. Ma tutte le speranze e le prospettive sono state bruciate dentro l’avventura americana da una famiglia che già da molti anni aveva perso la voglia di investire e che infatti ha messo a capo della più grande azienda manifatturiera italiana un legale esperto di operazioni di finanziarie il quale ha fatto gli interessi dei titolari non quelli della produzione automobilistica e men che meno quelli dell’Italia. E che ora di fronte al disastro sembra cambiare idea con il polo del lusso, ma probabilmente troppo tardi e comunque anche qui senza idee definite o pessime idee da dilettanti da realizzare senza investimenti. L’unica cosa è che almeno ha finalmente detto con durezza che non ci sarà alcun raddoppio della produzione, che il piano Italia era una fantasia, un inganno. Come tutti avevano capito e hanno fatto finta di non capire, compreso l’ammarchionato a sangue Bonanni.
La fragilità di tutto questo si è evidenziato già il giorno dell’annuncio ufficiale della fuga con un crollo in borsa. Giustificato sia dal non pagamento dei dividendi che dagli utili inferiori alle aspettative degli analisti. Ma soprattutto dall’assoluta inconsistenza e forse inesistenza di un piano industriale che dovrebbe essere stato messo a punto già da molto tempo e che ancora si sta attendendo di rinvio in rinvio: il sogno americano appena comprato a credito scricchiola. In Usa e Canada gli utili si sono ridotti del 9%, mentre in Brasile sono precipitati del 41%. E le giustificazioni dell’azienda- spese per nuovi modelli (che è poi uno solo, niente più di un restyling profondo) oppure la crescita inflazionistica dei costi per il gigante sudamericano ( ma l’inflazione vale anche per i prezzi di vendita)- non reggono nemmeno un attimo, si tratta delle solite risibili panzane con cui Fiat ha sempre narrato se stessa in un Paese e in un sistema mediatico che si è sempre inchinato di fronte alla real casa torinese, consentendole ogni cosa.
Questo è il risultato di piaggerie, corrività, distribuzione di prebende, inesistenza della politica assente o complice. L’Italia non ha più un’azienda automobilistica, ha qualche stabilimento di una ditta olandese il cui nome tra l’altro è ancora tutto da decidere. E la svendita continua, fino ad esaurimento magazzino.