foto by Primula – Ma Bohème
Una giornata di tardo autunno del 1994, uggiosa e piovosa come oggi; gocce e lacrime si fondono e bruciano le guance asciugandosi al vento.
20 anni: sono trascorsi per l’orologio e il calendario, non per me.
Questo pomeriggio apro i cassetti della grande libreria; succede di doverla svuotare e sistemare e, così, ritrovare vecchie foto, ritagli di giornale, bigliettini e lettere. Mi siedo in mezzo al caos della stanza a spalancare le ante virtuali della memoria, sempre socchiuse su di te. Alcuni dettagli, dai contorni sbiaditi, riemergono nitidi guardando immagini e leggendo parole.
Osservo una foto antica che sembra un quadro in realtà, dallo sfondo color seppia. La famiglia patriarcale è in posa per la foto ufficiale: genitori al centro e, attorno, una corolla di otto figli, cinque maschi e tre femmine.
Tu sei il primogenito.
Famiglia di agricoltori e allevatori di bestiame, agiata quindi; ogni figlio “sistemato” dal padre secondo il carattere e le inclinazioni di ciascuno, ma nel pieno rispetto del “rango”. Tu, e altri, avviato agli studi presso i Padri Barnabiti che, nella Bassa Padana, godevano di un grande prestigio per la serietà, il rigore dell’ambiente e la garanzia di una preparazione approfondita.
Tocco fogli sbiaditissimi di attestati, premi ed encomi: in collegio eri attivo, intelligente, amato dai compagni. Spunta un ritaglio di carta che ritrae una medaglia, pare d’oro dalla descrizione … chissà.
Già allora eri quello che sarai poi per tutta la vita: generoso e altruista. Gli altri erano e saranno sempre una priorità assoluta.
Quale scelta se non quella di diventare medico?
In te ho visto e rivedo il senso di una passione e di una missione.
A colazione tu non eri già più con noi; le luci del tuo ambulatorio a piano terra erano accese da un po’.
“Per gli operai” dicevi “Per chi fa i turni”: inammissibile che aspettassero troppo tempo per una radiografia, conoscerne l’esito o per una terapia fisica che non poteva essere spezzata pena la sua inefficacia.
E i pranzi domenicali (e non solo …) spesso interrotti dallo squillo del telefono? Ovviamente l’avevi voluto comunicante con lo studio medico. Tu rispondevi “Venga subito!” e riattaccavi la cornetta sorridendo.
O addirittura dal suono del campanello del portone di casa? Tu aprivi, scendevi, sempre disponibile.
“I malati non conoscono le feste comandate”, frase che ho sentito ripetere mille volte. Mai un “no”, un “non posso”, un “venga domani”. E sempre un “Lasci stare!” se conoscevi o intuivi difficoltà economiche.
Un’altra foto fa capolino da una piccola scatola di legno.
“Ma guarda! … il cortile dell’ospedale!” penso ad alta voce; sono sola in casa e in questo recupero del passato.
Eh, già! Perché c’era anche l’impegno in cliniche e case di cura, e non solo una.
E fu lì che la passione della tua vita s’incontrò con l’amore della tua vita: una giovane e bella infermiera con cui hai condiviso i giorni, i mesi, gli anni e le ore di lavoro.
Appoggio la testa al mobile semivuoto e ripenso al racconto ascoltato con stupore e incredulità fin da ragazzina. Oggi, da donna, dico dentro di me: ”Quanta forza e quanto amore!”
Sì, perché la bella infermiera non solo aveva qualche anno più di te, ma era già madre di un figlio adolescente … il mio papà …
“Ma come? Un medico rinomato si deve abbassare a sposare una ragazza madre, inoltre non della sua stessa classe sociale? Siamo impazziti? E che ne è della sua formazione cattolica?”
Il perbenismo della serena famiglia patriarcale s’inserì prepotentemente.
Erano gli anni ’50 e non era certo abituale vivere alla luce del sole una situazione simile, ma l’amore vero vince sempre su tutto e tutti.
E colui che diventerà mio nonno rinunciò a eredità, benefici familiari ma non alla sua fede davvero profonda che nulla aveva a che vedere con l’ipocrisia di un’immagine: niente era più importante della sua adorata futura moglie, del figlio che accolse come fosse suo e della famiglia che negli anni si allargò.
Con il tempo le lacerazioni si sono ricucite; si sono aperte ferite in direzioni diverse, ma questa è un’altra storia.
Resta il segno indelebile di un grandissimo esempio: una coppia dalla modernità straordinaria, un amore talmente intenso da rendere capaci di superare qualunque ostacolo; una dedizione totale all’altro nei sentimenti e nella professione.
E tu nonno non ti sei mai risparmiato, in nulla.
Se è vero che la scrittura rende immortali vite, sentimenti, esperienze, vorrei qui, oggi, condividere frammenti di te, nonno, “il mio papà 2”.
Il ricordo di una bambina che entra nell’affollata sala d’aspetto di un ambulatorio medico, con discrezione per non disturbare, ogni volta attratta da una frase incorniciata su una parete
L’ingratitudine umana è superata solo dalla misericordia divina
che dice tutto di te e anche ora mi fa riflettere, non poco.
La tua tomba, nella terra, nella tua “campagna” dove sei nato e hai desiderato tornare, sfidando ancora una volta il richiamo dell’apparenza, noncurante dell’immagine di uomo importante e professionista rinomato che ti sei costruito da solo e che, attorno a te, qualcuno voleva rinchiudere in una lastra di marmo pregiato.
Ma soprattutto, l’ultimo saluto in ospedale, quel venerdì sera di un 1994 che mi sembra ancora così vicino; da medico, sapevi perfettamente …
“Mi raccomando la mia Emy … Ciao, ci vediamo … di là.”