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Ciao Huber, ancora una volta in silenzio

Da Brigitrader @brigitrader

Ciao Huber, ancora una volta in silenzio

Ciao piccola Patrizia. E’ stato bello combattere, sognare, fare con te.

L’ultima battaglia di Patrizia, militante della legalità

“Non ci pensare nemmeno”. Me l’aveva detto con un tono così perentorio e stizzito che avevo alzato bandiera bianca in un secondo. In genere le persone sono contente di essere raccontate. Il tempo di schermirsi, “ma davvero lo merito?”, “ci ha pensato bene?”, poi prevale il piacere di avere giustizia. Qualcuno che parla di te una volta nella vita. Perché fai parte del buono e anonimo di cui (per fortuna) vive il mondo.
Lei no. Si era ribellata all’idea di finire in queste “Storie”. In cui quattro anni fa volevo includerla quando, andando a Verbania, mi ero reso conto delle cose che stava facendo, delle battaglie in cui era impegnata senza sosta. Senza arrendersi al male che l’aveva afferrata come un’arpia. Un tumore al cervello, a trentacinque anni. Come se  un cielo maligno avesse voluto punirla per il bene che cercava di fare in terra. Di quel male non avrei parlato, lei lo sapeva. Ma rinunciò d’istinto a qualsiasi elogio, poiché -così immaginai- lo riteneva suggerito in fondo proprio dalla compassione per la malattia. E compassione non ne voleva, se è vero che l’ultima parola che ha detto una settimana fa è stata “smettila”. Rivolta alla madre Vanda che se la baciava disperata sulla fronte.
Patrizia Guglielmi entrò nella vita pubblica come giovanissima combattente della legalità in un paese consumato e ridotto allo stremo da bande inesauribili di ladroni. E alla lotta per la legalità si dedicò appena ventenne, nella Milano sfregiata da Tangentopoli. Figlia di un operaio dell’Alfa di nome Palmiro, che aveva eletto a suo simbolico nemico Bettino Craxi,  Patrizia aveva scelto di impegnarsi nei movimenti antimafia. Aveva eletto a suoi simboli i martiri di Palermo, ai cui anniversari andava -senza che nessuno lo sapesse- nella città delle lapidi a portare un fiore. Dopo una militanza nel movimento della Rete, era entrata nella redazione di “Omicron”, l’Osservatorio milanese sulla criminalità organizzata che produsse le prime analisi scientifiche sulla presenza di mafia e ‘ndrangheta al nord. Poi si era trasferita con la famiglia sul lago Maggiore, a Verbania sul lato di Intra. E lì aveva aperto il secondo capitolo della sua breve e intensissima vita. Si era messa in contatto con il mondo del giornalismo e dell’associazionismo. Battaglie contro i latrocini e contro la speculazione edilizia, tema per il quale, stando sul lago, sviluppò una sensibilità particolarissima. Aveva anche aderito, nel ruolo di simpatizzante, all’associazione carabinieri, di cui portava il distintivo. Per questo, oltre che per il rigore sfoggiato come arbitro di canoa, si era guadagnata tra gli amici il soprannome di “Huber”, personaggio italo-svizzero di lontane gags televisive di Aldo, Giovanni e Giacomo: una guardia che andava per le spicce quando voleva ristabilire la legalità violata da un nonnulla, si trattasse di un’auto in sosta vietata o di un bambino che giocava a pallone su un prato ben tosato. Aveva denunciato le malefatte amministrative del suo Piemonte nord-orientale dall’”EcoRisveglio”, bisettimanale “del Verbano-Cusio-Ossola”, sin dalla sua fondazione, nel 2002. Nel 2004 si era anche candidata come consigliera comunale nei Democratici di sinistra. Prima dei non eletti, era poi entrata nel consiglio nel 2008 dopo il ritiro di un consigliere, garantendo una presenza assidua. Soprattutto creò il presidio di Libera “Giorgio Ambrosoli”, portando sulla sponda occidentale del lago Maggiore i grandi temi e i grandi testimoni della lotta alla mafia. Torino, Genova, Milano, Roma, Palermo: per lei la geografia della legalità italiana non conosceva confini. Riluttante ad atteggiarsi a pensatrice, era molto incline, invece, a lasciare in ogni passaggio il segno del suo fare. Chissà che cosa avrebbe inventato ancora quella ragazza perennemente in pantaloni e golf e camicette, il vestito da usare come rarità nelle serate di festa, la giacca per metterci il distintivo dell’Arma, perfetta anomalia per una giovane donna di sinistra. Purtroppo l’invenzione fu altra, e venne dai cieli più lividi. L’imprevisto assurdo, il tumore al cervello. Se lo volle affrontare tutto da sola: visite, diagnosi, terapie, smarrimenti. Gli altri, il mondo esterno, li concepiva d’altronde solo come destinatari della sua generosità. Chiedere la umiliava. Si batté per le cause collettive fino alla fine, senza lamentarsi. Tanto che, non sentendone più nulla, gli amici lontani si erano convinti che avesse saputo battere quel nemico minore, che cosa vuoi che sia per lei davanti alla mafia e alla corruzione.
Invece non era così. Se ne è andata lunedì scorso in silenzio, sottraendosi alla vista e alla compassione altrui. Solo le sue colleghe di redazione, Tiziana più di tutte, hanno potuto sapere e stare vicino alla madre. Nei giorni scorsi ne hanno parlato con nostalgia la stampa locale, le autorità amministrative, i giovani dell’antimafia. Per questo mi sento oggi autorizzato a violare quella consegna del silenzio di quattro anni fa, quel “non ci pensare nemmeno”. E a raccontare la commozione provata vedendo accanto al registro dei visitatori una foto, Patrizia con il giudice Gian Carlo Caselli. Perché nessuno dimentichi da che parte sono stati i suoi primi e unici quarant’anni.

Nando dalla Chiesa, Il Fatto Quotidiano, 29.9.13

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