Esistono delle cose, dei momenti, delle persone, nella vita, che involontariamente ti prendono la mano e ti portano su una strada, piccole deviazioni di percorso delle quali a volte ci accorgiamo, altre no. Involontariamente ci aiutano a tracciare la mappa della nostra esistenza.
Di Mario Fossati mi ricordo il suo nome scritto in grassetto sotto gli articoli nelle vecchie pagine un po’ ingiallite dei primi Bicisport. Gianni Mura, Gianni Brera, Mario Sconcerti. Quei nomi me li ricordo come si ricorda un’Ave Maria: tutti insieme, come una cantilena. Loro, per primi, mi hanno fatto capire che il ciclismo cambia con gli anni ma rimarrà sempre una storia di uomini.
Di Mario Fossati mi ricordo un pezzo su Coppi del giugno 1976. Aveva seguito Fausto durante la Campagna del Nord e il Campionissimo, solitamente silenzioso e chiuso nei suoi pensieri, nelle sue malinconie, aveva sorriso. In treno, durante il rientro in Italia, con addosso un pigiama che rivelava la sua magrezza, aveva detto a Fossati: “Domani Ambrosini ti chiamerà e ti chiederà come sto e tu gli risponderai che sono pelle e ossa e Ambrosini scriverà un pezzo in cui porrà un interrogativo sulla mia campagna invernale, si chiederà a cosa sia servita. Ma alla Milano-Sanremo lo smentirò: avrò settemila chilometri nelle gambe.”
“Sei il solo che se lo può permettere” gli aveva detto Mario Fossati.
Forse è così, immaginando quel dialogo tra amici, che ho cominciato a fantasticare e a dirmi che sarebbe stato bello avere una vita in quel modo, alla ricerca di parole, di discorsi, di racconti da mettere su carta. Raccontare questo sport come un viaggio infinito. In treno, in macchina, a piedi. A mente.
Il ciclismo non ha fame solo di asfalto e di fatica. Ha fame di parole. Parole che quella fatica la urlino. Parole contro il silenzio di una strada tortuosa, impietosa. Mettere su carta le gambe distrutte, le braccia tremanti dopo una Roubaix, le viscere stanche e gli impeti di coraggio. Scrivere è come fotografare: un’istantanea netta, precisa, di un momento che non tornerà. E lo scrittore è un artista meticoloso, puntiglioso, che vuole restituire tutto, goccia per goccia: la pioggia, i muscoli, le ruote, il sole, la neve, gli occhi umidi, le labbra rotte dal gelo.
Di Mario Fossati mi ricordo questi racconti lucidi, umani, confidenziali. Quelli che vorremmo avere tutti con i campioni che tifiamo per strada, che stiamo a guardare a bocca aperta mentre menano le gambe. Racconti che parlano del ciclismo autentico, dei momenti che fanno innamorare: piccoli istanti fissati nel tempo dalle sue parole. E’ questo il potere: scrivere cristallizza la memoria. Se delle figure, delle fisionomie, perdiamo lentamente i contorni, delle parole no. Una frase può rimanere con noi per sempre. Chiara, vera, come la prima volta che l’abbiamo letta o sentita.
Di Mario Fossati ammiro la sua vita e come ha saputo usare la sua penna. E invidio un po’ il fatto che Gianni Mura forse scriverà un Coccodrillo toccante e sincero per ricordarlo. Chiunque vorrebbe morire accompagnato dalle sue parole.
Ciao Mario, e scusa se ti do del tu. Forse, se ti avessi incontrato di persona in questa vita, avrei avuto un po’ soggezione, come ce l’ho con le persone che considero insegnanti di strada, e ti avrei dato del lei. Ma adesso sei come Jack Kerouac, come Cesare Pavese. E’ una confidenza che mi permetto con chi, con quello che ha lasciato per iscritto, mi ha regalato un po’ della sua anima.