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“Cielo” di Rosario Tomarchio: la vita ha il cielo per capanna, mentre la terra è il suo letto

Creato il 14 novembre 2014 da Alessiamocci

“Vago tra le parole/ E le canzoni d’amore,/ le ricerco. Dove siete?/ Forse non si ama più?/ Dove sono le coppie innamorate?/ Che i gentil poeti prestavano loro/ le parole per far sentire battere il cuore./ Dove son finiti le rose e i violini?/ E serenate sotto i portici dell’amor?/ Rapiti dal tempo? E pur io rimango qui a sospirare rime..” “Il vento caldo dell’amore”.

“Cielo” di Rosario Tomarchio: la vita ha il cielo per capanna, mentre la terra è il suo lettoChe Rosario Tomarchio fosse un poeta d’altri tempi lo avevamo già capito. E questa sua quarta silloge, intitolata “Cielo” e pubblicata dalla casa editrice Rupe Mutevole nell’ottobre 2014 per la collana editoriale “Trasfigurazioni” in collaborazione con Oubliette Magazine, lo ha confermato.

Ancor più che nelle raccolte precedenti, queste liriche appaiono come un omaggio a Giacomo Leopardi, sia nei titoli che nel modo di declamare i versi. Questo non per una mancanza di originalità, ma semplicemente perché un poeta che, come si evince dalla citazione riportata all’inizio, si chiede dove sia finito il romanticismo in questo mondo, non potrebbe mai ispirarsi ad un autore minore, oppure lasciare che i suoi versi suonassero striduli, senza rima e apertamente contemporanei.

“Cielo” si apre con la poesia “Il giorno di domenica”, dove vi è un’eco di quella formazione cristiana che accompagna tutti gli scritti di Tomarchio. Qui il poeta chiede al lettore di rallegrarsi, di “santificare le feste”, appunto; ma il messaggio si espande a toccare il tema del perdono, perché, in fondo, l’uomo felice è soltanto colui che è in pace con se stesso e con il suo passato. “Rallegrati in questo giorno beato./ E la pace entrerà nel cuor”.

Diverse sono le liriche ispirate dalla fede, come per esempio “L’uomo della croce”, “Per un uomo giusto” oppure “Angelo custode” che riprende l’antica preghiera. Senza soffermarsi ulteriormente sulle tematiche religiose, dove il poeta giunge a palesare un tipo di retorica così genuina da non concedere possibilità di replica, trovo che la parte più interessante delle sue riflessioni sia quella riguardante il Rosario Tomarchio “uomo”, con i vari parallelismi che egli evoca per giungere ad esprimere il suo dolore.

Da questi versi scaturisce una grande passione che, come le onde del mare, si agita fino a trovare il suo culmine, per poi ritornare allo stato di calma. In particolare vi è la necessità nel poeta di essere ricordato e, al tempo stesso, il timore di non vivere appieno i presente. Nella lirica “A Zare” si legge. “Ricordati di me/ quando non sarai/ di questa terra/ e del mio cuore/ che ti ha voluto bene”.

Preponderante si avverte un sentimento di solitudine di fondo che trova conforto nella poesia, dove il “poetare” si arricchisce di immagini simboliche. La “luna”, la “notte”, diventano testimoni silenti e compagne di vita per il poeta; si animano a proteggere il suo “essere solo”, attraverso una natura antropomorfizzata. “O cara luna che di notte/ mi fai compagnia,/ mentre scrivo le mie rime”. Anche il vento, accarezzando le cose, viene personificato, divenendo una sorta di “genitore benevolo” che sfiora i suoi figli e poi si allontana.

“Cielo” di Rosario Tomarchio: la vita ha il cielo per capanna, mentre la terra è il suo lettoLa dicotomia caratterizza l’intera silloge: un utilizzo volutamente indiscriminato di termini opposti che si annullano a vicenda, oppure diventano complementari. È il caso della pietra che un giorno ospiterà il poeta sul finire dei suoi giorni: “come quella bianca pietra/ che un giorno mi accoglierà”, citazione dalla poesia “Freddo”. La pietra, fredda, è accomunata ad un gesto “caldo” quale quello dell’accoglienza, così come le “lacrime di solitudine” dell’autore sono sempre accompagnate da una sua “speranza nella vita”.

Da evidenziare alcune imprecisioni linguistiche, che nella poetica di Tomarchio potremmo addurre a licenze poetiche. I riferimenti alla Sicilia, sua terra d’origine e all’Etna, ai piedi del quale egli vive, sono sempre presenti. Il poeta sembra rimanere costantemente in secondo piano, come se temesse di essere eccessivo.

Invece di vivere la vita, egli si limita a compiere delle riflessioni su di essa, complice la luna, che rimane un punto fisso; mente il sole è solo un “soffio” leggero che presto svanisce. Ecco allora che il “cielo” citato nel titolo diventa la “capanna” dell’umanità, mentre la terra è il suo letto. La chiusa dell’omonima poesia lo conferma: “parole che si intrecciano, si confondono/ come lame che tracciano percorsi/ di persone vissute, che hanno/ accarezzato questa terra che di/ letto fa a questo corpo/ e il cielo la sua capanna”.

Il poeta si sofferma sul concetto di innocenza, tipico dell’infanzia, ora perduto. L’uomo adulto è prigioniero delle sue colpe, e schiavo delle sue passioni. Per questo la nostalgia dei tempi passati si allarga ed invade il pensiero, con quei sogni fatti da piccoli che più non se ne vanno.

 

Written by Cristina Biolcati

 


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