La Cina in Africa si espande sempre più, questo ormai è noto. Meno conosciuto è forse il come. Questo interessante articolo, pubblicato in data odierna sul Sole 24 Ore e a firma di Anna Del Freo, oltre a illustrare le tecniche di conquista del Dragone, pone l’accento sulla scarsa correttezza nei confronti dei Paesi Occidentali, come ad esempio l’Italia.
La Cina sta conquistando l’Africa. Non è una metafora, è vero. E lo sta facendo da diversi anni con tutti i mezzi possibili, sotto il naso di un’Europa che non sa o non può reagire, un po’ perché deve rispettare regole che Pechino non rispetta, un po’ perché è scomodo denunciare la Cina, che rappresenta a sua volta un mercato immenso e che potrebbe per ritorsione chiuderne le porte.
L’Africa, si sa, fa gola a tutti: in piena espansione economica e demografica, è anche uno scrigno di materie prime e di combustibili fossili. Da qui l’ansia cinese di metterci le mani, utilizzando senza scrupoli il war chest, il fiume di liquidità pari a 3mila miliardi di dollari in riserve valutarie a disposizione di Pechino e spesso utilizzate come strumento di penetrazione politica e commerciale. Infatti, al di là degli strumenti più “classici” social dumping, sottovalutazione dello yuan, mancato rispetto delle norme Wto che vietano i sussidi di Stato, mancato rispetto della proprietà intellettuale, indifferenza alle norme anti-corruzione e ambientali, mancata reciprocità nell’accesso agli appalti pubblici – è la concorrenza finanziaria che oggi sta penalizzando l’Europa e le nostre imprese a tutto vantaggio del Dragone.
Come? È presto detto. La Cina non fa parte dell’Ocse e non ne rispetta le regole. La sua “assistenza finanziaria” si concretizza, in pratica, in doni e prestiti a tasso agevolato concessi ai Governi africani.
Un dossier elaborato da Assafrica e Mediterraneo (l’Associazione del sistema Confindustria per lo sviluppo delle imprese italiane in Africa, Mediterraneo e Medio Oriente) denuncia questo tipo di pratica: non essendo Paese Ocse, la Cina non rispetta i cosiddetti “accordi di consensus”, che regolano sia gli aiuti pubblici allo sviluppo (Aps) con scopi umanitari e di assistenza allo sviluppo, sia il credito all’export che, invece, ha finalità commerciali.
Per l’Ocse, gli Aps devono essere slegati dalle esportazioni nazionali e di ricorso alle gare di appalto e prevedere almeno un 25% di liberalità. Ma la Cina non si comporta così: il suo programma di aiuti internazionali è gestito da un apposito dipartimento del ministero del Commercio, che gestisce i programmi del dono, i prestiti a tasso zero, i programmi per i giovani ”volontari” e di assistenza tecnica. Gli strumenti finanziari vengono erogati direttamente dalla Eximbank of China, cioè l’istituto di credito pubblico export-import, nelle modalità illustrate dal l’infografica qui sopra.
Particolarmente pesante è il gioco infrastrutture contro materie prime, che va sotto il nome di “prestiti modello Angola“. Infatti già nel 2004 l’Angola ha ricevuto un prestito di 2 miliardi di dollari dalla Cina per lo sviluppo di infrastrutture, nel campo dell’energia elettrica, delle telecomunicazioni, delle ferrovie e della rete idrica. In cambio, Pechino ottenne una fornitura di petrolio pari a 10mila barili al giorno. Questo modello è stato ripetuto in molti Paesi del continente, dalla Nigeria al Gabon alla Guinea, per ottenere petrolio ma anche ferro, cromo, bauxite e perfino cacao.
I dati disponibili sono difficili da trovare, perché si tratta di accordi che i Governi fanno in via riservata con Pechino; secondo un articolo pubblicato a fine 2011 nel sito di The beijin axis, la grande agenzia di consulenza per le imprese cinesi nel campo delle materie prime, approvvigionamenti, capitali e strategie, solo il 50% di imprese cinesi che hanno ottenuto appalti nel campo delle infrastrutture ci sono arrivate attraverso gare pubbliche, mentre il 40% ci è arrivato attraverso prestiti, concessioni e altri meccanismi in cui gioca un ruolo chiave il Governo di Pechino.
Questo modo di fare continua. È recente la notizia pubblicata dal Financial Times, secondo cui la Commissione Ue starebbe aprendo per la prima volta d’ufficio, senza cioè la denuncia di un’azienda, un’inchiesta formale sugli aiuti, considerati illegali, che il governo cinese avrebbe elargito a due gruppi come Huawei e Zte affinché offrissero i loro prodotti sottocosto a discapito dei vendors europei.
Secondo l’African Development Bank report, alcune stime (che si fermano al 2009) sul volume dei “falsi” Aps erogati dalla Cina all’Africa parlano di 850 milioni di dollari nel 2007, 1,2 miliardi nel 2008, 1,4 miliardi nel 2009, in un crescendo che non si è mai fermato.
Anche l’export cinese in Africa, secondo gli ultimi dati disponibili e divulgati dalla Farnesina, non fa che crescere: nel 2005 il valore era pari a 18,7 miliardi di dollari, nel 2010 era già 60 miliardi di dollari e nei primi 9 mesi del 2011 la cifra era già arrivata a 53,3 miliardi di dollari.
«La minaccia di ritorsione dichiara Giovannangelo Montecchi Palazzi, presidente del comitato scientifico di Assafrica esclude la possibilità di azione da parte di singole aziende e anche di stati di medie dimensioni come l’Italia. Le azioni difensive, sia tecno-legali che politiche, possono essere promosse soltanto da attori di peso come Usa e Ue. Ma a proposito della Ue, duole sottolineare la debolezza finora dimostrata».
Posto che si possa trattare di concorrenza sleale, sorge un grande interrogativo. Ma l’Africa ne trae beneficio? Cioè, se i Paesi africani coinvolti dagli investimenti cinesi riescono ad ottenere prodotti a prezzi inferiori e sovvenzioni per progetti che realmente portano benessere non si capisce perché limitare questa presenza asiatica. È ovvio che la Cina non è un “Babbo Natale” generoso e che si tratta di interessi economici, ma probabilmente un africano penserà che c’è una forma di convenienza reciproca. Un rapporto paritario tra partner e non forme di falso paternalismo all’europea.
Probabilmente un consumatore africano grazie al basso costo e alla varietà delle merci cinesi disponibili sul mercato, guarda con soddisfazione all’ingresso di questi prodotti, pur non rendendosi conto, tuttavia, che quest’invasione crea comunque un effetto devastante sulle deboli industrie del continente che non riescono a competere sul mercato interno proprio a causa del basso costo dei prodotti cinesi.
L’articolo prosegue con i seguenti schemi:
I tre strumenti finanziari usati dalla Eximbank of China per conquistare l’Africa:
- CREDITI ALL’EXPORT (preferential export buyer’s credit): concessi con tassi di interesse inferiori a quelli di mercato (2-3%) denominati in dollari e finalizzati a promuovere le esportazioni cinesi;
- CREDITI MISTI: un pacchetto finanziario che combina assieme diversi strumenti come i crediti concessi all’impresa cinese fornitrice e prestiti a tasso agevolato sotto forma di aiuti allo sviluppo -Aps – ma fuori dalle regole Ocse;
- LINEE DI CREDITO COMMODITY – BACHED: prestiti a tasso di mercato per realizzare progetti infrastrutturali ripagati con l’export di materie prime da parte del Paese africano di destinazione – vietati dalle norme Ocse -.
Altri fattori che distorcono la concorrenza:
- Cronica sottovalutazione dello yuan;
- Non rispetto della proprietà intellettuale;
- Mancato rispetto delle norme WTO che vietano i sussidi di stato;
- Inesistenza di norme che sanzionino la corruzione dei pubblici funzionari all’estero;
- Mancata reciprocità in materia di appalti;
- Disponibilità a trattare con qualunque regime.
Tratto da “Cina – Africa, rotta con poche regole” di Anna Del Freo su Il Sole 24 Ore di lunedì 18/06/2012
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