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Cina e Giappone rompono il ghiaccio sul Mar Cinese Orientale, ma c’è altro all’Apec

Creato il 11 novembre 2014 da Danemblog @danemblog
(Pubblicato su Formiche)
Non c’è stato quello che si può definire un caloroso abbraccio, comunque sia – come previsto – il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro giapponese Shinzo Abe si sono incontrati e hanno iniziato ad intavolare un colloquio sulla disputa che riguarda le isole contese del Mar Cinese Meridionale.
Il vertice è avvenuto a margine della prima giornata del meeting Asia-Pacific Economic Co-operation (Apec) di Pechino – in discussione accordi economici e commerciali tra i 21 Paesi membri, e una forte iniziativa contro la corruzione endemica dell’area.
I colloqui sino-giapponesi segnano un passaggio storico: il tentativo di migliorare i rapporti e risolvere la questione sulle isole Senkaku (che in Cina chiamano Diaoyu), è il primo di questo genere, dopo che negli ultimi due anni i rapporti diplomatici tra i due Paesi erano praticamente chiusi, e negli ultimi mesi diventati particolarmente tesi.
Le isole sono rivendicate dalla Cina come “proprietà” storica, in quanto scoperte, esplorate e misurate già nel 1403 , ma sono sotto l’amministrazione giapponese dal 1972 - secondo quanto stabilito nel 1951 dal Trattato di pace di San Francisco e dal Trattato di reversione delle Okinawa del 1969 tra USA e Giappone (dopo la Seconda Guerra Mondiale, erano infatti state parte dell’Amministrazione civile americana delle Isole Ryukyu).
La decisione di Tokyo (del settembre 2012) di acquistare tre di questi isolotti (attualmente disabitati) dal loro proprietario privato giapponese (i Kurihara), ha avviato l’escalation dell’attuale disputa sulla “zona economica esclusiva” rivendicata dalla Cina: il retroscena, sono le rotte commerciali importanti che tagliano i mari delle Senkaku e la possibilità della presenza di potenti giacimenti sui fondali.
Il linguaggio del corpo dei due leader durante la foto ufficiale, ha però dimostrato più delle parole e degli intenti annunciati, che tra le due nazioni resta il gelo. Il rischio che uno scontro tra i battelli cinesi e giapponesi, spediti in questi mesi a pattugliare (e a fare deterrenza) intorno alle isole, potesse sfociare in un vero e proprio conflitto, era consistente.
Al vertice internazionale Apec, era presente anche Barack Obama: inutile dire che gli Stati Uniti, alleati del Giappone, hanno un ruolo centrale nella disputa sulle isole contese del Mar Cinese Meridionale. Nel 2013, uno degli ultimi episodi che ha coinvolto gli americani, in queste che nel tempo è diventata una guerra di nervi: dopo che la Cina inserì i cieli delle Senkaku nell’”area d’identificazione aerea”, due bombardieri B52 sfidarono il governo cinese e sorvolarono la zona. Pechino denunciò la vicenda come violazione del proprio spazio aereo, Tokyo, irritata dalla decisione cinese, strizzò l’occhio agli alleati. Nell’aprile di quest’anno, durante una conferenza stampa congiunta con il pm Abe all’inizio del suo tour asiatico, richiamando il trattato di mutua cooperazione e sicurezza nippo-americano, fu proprio Obama a dichiarare che in caso di conflitto con la Cina, gli Stati Uniti avevano il dovere di andare in aiuto del Giappone – pur invitando i due Paesi a risolvere “da soli” la disputa.
Anche per questo Obama è volato a Pechino per presenziare al vertice Apec: l’occasione di una “soluzione pacifica” della questione Senkaku, è vista di buon occhio dalla Casa Bianca – che al momento ha vari altri problemi da risolvere.
Ma non c’è solo questo dietro alla presenza del Prez: la visita è stata anche incentrata sul mantenere viva il sostegno al Trans Pacific Partnership (TTP), accordo commerciale regionale incentrato sul libero scambio.
La Cina non è tra i Paesi inclusi nel deal, e per questo Pechino sta proponendo agli altri membri Apec, una soluzione propria: la Free Trade Area of the Asia-Pacific (FTAAP). Xi si è fatto carico di uno studio di due anni sul piano, per essere poi presentato – e votato – agli altri membri del Pacifico asiatico. La Cina vede il TTP come un accordo esclusivo, ideato per tagliar fuori Pechino: insomma, un metodo per contrastare la dominante (e crescente) influenza del Paese nell’area asiatica.
Un altro fronte in cui Obama, sebbene abbia preso una posizione, sembra essere una figura relativa. È soprattutto una questione di percezione. Anche se la “sua America” nel 2011 ha ucciso Osama Bin Laden, se Washington ha assicurato il sostegno al Giappone in caso di una mossa “drastica” della Cina sulle contese isole Senkaku, se soldati americani sono stati inviati nei Baltici e in Polonia come contenimento delle mire espansionistiche russe, se le sanzioni iniziano a pesare sul serio Mosca, se 28mila truppe statunitensi sono stazionate in Corea del Sud per arginare il pazzoide Kim, se l’Iran negozia sul nucleare, e se la Coalizione che combatte il Califfo in Iraq e Siria lavora sotto il “turbo” americano, il presidente continua ad essere percepito come debole in politica estera (parafrasando quello che scrisse David Ignatius sul Washington Post).
Quello che è peggio, è che questa percezione non arriva solo dall’opinione pubblica, ma pure dagli omologhi leader internazionali.


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