Cina: la tigre di carta che fa da alibi al filoamericanismo

Creato il 05 aprile 2012 da Tnepd

La compagine ministeriale di Mario Monti si sta sempre più caratterizzando come un quarto governo Berlusconi, assumendo gli stessi tratti di scompostezza e di cialtroneria della precedente esperienza governativa. C’era chi si illudeva che il nuovo Presidente del Consiglio potesse almeno evitare all’Italia le figuracce a livello internazionale elargite a piene mani nell’epoca berlusconiana, ma ha dovuto ricredersi dopo il viaggio di Monti in Asia.
Il Monti cinese ha alternato gli atteggiamenti da accattone con velleitari sussulti di autocelebrazione meramente personale, a scapito dell’immagine di un’Italia dipinta immancabilmente in modo denigratorio. Monti è apparso un continuatore del berlusconismo: una politica estera del cappello in mano e delle brache calate, insieme con un approccio comunicativo interamente distorto ai fini della propaganda interna. Resoconti di stampa tendenziosi hanno cercato poi di far credere che al governo cinese fregasse davvero qualcosa della questione della “riforma” dell’articolo 18, e che ciò potesse in qualche modo costituire un incentivo a quegli investimenti cinesi in Italia tanto invocati da Monti.
Tutta l’operazione mediatica dei giorni scorsi non ha fatto altro che rafforzare nell’opinione pubblica il mito della potenza economica emergente della Cina, ed il viaggio di Monti è servito ad enfatizzare l’immagine di un nuovo imperialismo economico di marca cinese a cui inchinarsi. Sembra la riedizione della politica estera – di berlusconiana memoria – del baciamano al falso potente di turno. La sensazione è invece che la potenza cinese emergente costituisca solo una tigre di carta, un mito gonfiato pretestuosamente in funzione di altri interessi.
In questi ultimi anni il filoamericanismo ha ripreso lena e slancio proprio nutrendosi del mito della potenza cinese emergente: se gli Stati Uniti non sono più la prima potenza economica, allora non sono più nemmeno una potenza imperialistica, quindi si può essere filoamericani senza più sensi di colpa; perciò le oltre cento basi militari USA e NATO, che controllano capillarmente il territorio in Italia, diventano un irrilevante dettaglio del paesaggio.
L’antiamericanismo è una posizione di piccole minoranze isolate, come soggetto politico consapevole non esiste a livello mondiale. Ogni tanto dei governi sono costretti ad adottare un antiamericanismo dovuto ad esigenze di immediata necessità e sopravvivenza. Occorrerebbe rileggere la storia della Cina degli anni ’50 e ’60 per rendersi conto che anche la mitica intransigenza rivoluzionaria del gruppo dirigente cinese di allora era solo un effetto collaterale delle continue aggressioni statunitensi. Durante la guerra del Vietnam, l’aviazione statunitense effettuò in continuazione sconfinamenti ed attacchi sul territorio cinese, sebbene la Cina non muovesse un dito per aiutare il Vietnam. Al Segretario di Stato Kissinger bastò lanciare un’esca diplomatica al gruppo dirigente cinese, e questi immediatamente si sbarazzò nel 1971 dell’ingombrante Lin Piao, ed accolse a braccia aperte Nixon nel 1972.
Per riconoscenza verso gli USA, la Cina avviò anche una spedizione militare punitiva contro il Vietnam nel 1979. Ancora adesso la Cina riserva tutta la sua aggressività esclusivamente nei confronti del Tibet, mentre si è lasciata buttare fuori senza protestare dalla Libia e dal Sudan del Sud, dove aveva importanti interessi petroliferi. Allo stesso tempo, la Cina non fa quasi nulla per proteggere Iran e Venezuela, cioè i propri principali fornitori di petrolio. La timidezza della Cina in politica estera smentisce il mito della sua emergente potenza, ma ci sarà sempre qualche filoamericano che interpreterà questa timidezza come la prova provante di recondite mire aggressive.
Come tutte le forme di razzismo, anche il filoamericanismo costituisce la falsa coscienza di gruppi criminali e dei loro numerosi aspiranti imitatori. Risulta assente ai livelli istituzionali un riconoscimento del dato di fatto, e cioè che con gli Stati Uniti è impossibile qualsiasi trattativa, poiché si tratta di un apparato politico che, storicamente, non è mai stato in grado di sviluppare processi decisionali autonomi da quelli funzionali esclusivamente all’aggressività affaristico-criminale delle corporation multinazionali. Persino la bandiera degli Stati Uniti non è altro che un’imitazione della bandiera della Compagnia delle Indie Orientali, cioè l’antenata delle attuali multinazionali. La britannica Compagnia delle Indie Orientali era nata nel ’500 come società di pirateria, e poté poi comprarsi la legalizzazione agli inizi del ’600.[1]
L’apparato di psicoguerra confezionato attorno alla presidenza Obama è riuscito a sfruttare abilmente proprio questo carattere estemporaneo dell’antiamericanismo. Dopo l’aggressività manifesta della presidenza Bush, si è tornati negli USA a tradizionali tattiche di understatement, cioè di dissimulazione vittimistica della propria aggressività, in modo da convincere gli “antiamericani per necessità” che lo stato di necessità sarebbe appunto cessato a causa del “declino” statunitense. La dissimulazione delle aggressioni non solo non attenua, ma aumenta l’efficacia psicologica delle aggressioni stesse.
Le operazioni di guerra psicologica vengono denominate come PSYOPS, e questa sigla contiene un evidente gioco di parole riferito al contenuto più frequente in questo tipo di operazioni. Infatti le PSYOPS non sono basate soltanto sul “false flag”, ma anche sul “false friend”. Io ti trancio i cavi delle funivia e ti faccio una strage, ti piscio sui cadaveri, ti brucio il Corano, ti faccio una sortita notturna per ammazzare donne e bambini, ti ammazzo “per sbaglio” un alleato ad un posto di blocco, ecc.; per non parlare dei “danni collaterali” dei bombardamenti. Tutto questo non è mai voluto, ma è sempre l’effetto di un increscioso incidente o, al massimo, è dovuto a qualcuno che ha perso la testa: “Ops!” diventa la giustificazione universale; cioè non te la puoi prendere con nessuno, perché, a ben vedere, la colpa indiretta di questo increscioso incidente è sempre della vittima.
L’esistenza delle PSYOPS viene tranquillamente riconosciuta dai militari, ed inoltre le PSYOPS non c’entrano nulla con le teorie del complotto. Eppure, ogni volta che vengono segnalate delle PSYOPS, ciò immancabilmente viene etichettato come complottismo; un’etichetta rilasciata con facilità anche da parte di settori dell’opposizione sociale. Il filoamericanismo esercita un’influenza molto più profonda e ramificata di quanto si voglia credere. [2]
La storia di quest’ultimo ventennio indica che lo sviluppo economico cinese è stato funzionale soprattutto alla de-industrializzazione dei Paesi “occidentali”, cioè al drastico ridimensionamento della classe operaia, dato che una massa operaia forte e numerosa avrebbe costituito un ostacolo insormontabile alla finanziarizzazione dell’economia. Oggi persino il rapporto di lavoro tende invece a finanziarizzarsi, ed il lavoratore precarizzato diventa dipendente non tanto di un imprenditore, ma di una carta di credito che gli eroga salari, sussidi e, soprattutto, prestiti. Un welfare per banchieri, in cui anche Confindustria si rassegna al ruolo di lobbista delle banche. Questo è il senso della “riforma” della ministra Cuornero.
Le capacità di sviluppo del cino-capitalismo non sono dovute a qualità intrinseche, né tanto meno allo sfruttamento intensivo della forza-lavoro, dato che, da questo punto di vista, neanche in Italia si scherza. In realtà già nel 2010 uno studio dell’Università Cattolica di Milano metteva in evidenza che il cino-capitalismo non è affatto un’esperienza inedita, ma costituisce la riedizione del sistema delle partecipazioni statali in vigore in Italia negli anni ’50 e ’60: “UN MISTO TRA IRI, ENI, EFIM E PARTECIPAZIONI STATALI”. [3]
Alla fine del 2011 un articolo su “The Economist” confermava il ruolo crescente e decisivo, strategico, dell’industria di Stato in Cina, osservando inoltre che il governo cinese aveva disatteso gli impegni assunti nel 2001 all’atto dell’ammissione nell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO); perciò le privatizzazioni non hanno inciso sul carattere prevalentemente pubblico dell’economia cinese. [4]
Persino il sistema bancario cinese è quasi completamente statale, sia nella proprietà che nella direzione. [5]
Ora, secondo Monti, le partecipazioni statali e le banche statali cinesi dovrebbero venire ad investire in Italia, mentre l’Italia non potrebbe dotarsi di un proprio sistema di partecipazioni e banche statali per non contravvenire ai trattati europei. Non esistono quindi virtù economiche cinesi ancora a noi sconosciute, ma semplicemente diversi gradi di disciplina coloniale nell’OMC-WTO.
La Cina può crescere a tassi del 10% annuo perché non ha smantellato le Partecipazioni Statali, come invece l’Italia è stata costretta a fare venti anni fa. Del resto tassi di sviluppo industriale del genere non sarebbero possibili senza intervento pubblico in economia, cosa che sanno benissimo anche i sedicenti liberisti. E se la Cina non fosse cresciuta a quei livelli, non sarebbe stato possibile parallelamente ridurre ed isolare il ruolo della classe operaia occidentale.
Le privatizzazioni a tappeto non sono affatto funzionali allo sviluppo industriale, ma allo sviluppo finanziario. Il liberismo non è altro che uno slogan/fiaba che serve a coprire l’assistenzialismo per banchieri. Lo dice anche la Banca Mondiale, che ha denominato il suo programma: “Financial & Private Sector Development”; cioè: privatizzazione sta per finanziarizzazione. [6]
Ma non solo la privatizzazione, anche la de-industrializzazione tout-court, oppure il soppiantamento di insediamenti industriali storici, hanno svolto in Italia una funzione decisiva in processi di colonizzazione dalle dinamiche rimaste ancora oscure. Tutta l’aneddotica razzistica sui cinesi non è mai riuscita a spiegare come sia potuto avvenire che storiche aree dell’industria tessile, come quelle di Prato e di San Giuseppe Vesuviano, siano potute passare senza colpo ferire sotto il controllo di imprenditoria cinese. Articoli di giornale, o timidi abbozzi di ricerca sociologica, sfiorano il problema, lasciando però inevasa la domanda fondamentale: oggi chi controlla davvero il territorio in Italia?
A San Giuseppe Vesuviano si potrà sempre tirare in ballo la mitica camorra; ma a Prato? [7]


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