Cindy Sherman è una fotografa la cui arte risulta tanto affascinante quanto perturbante. Nata a Glen Ridge nel 1954, è cresciuta circondandosi di arte visiva, in particolare la pittura prima, la fotografia, autentico e più grande amore, poi.
Sempre al confine fra stage photography e autoritratto vero e proprio, i lavori della Sherman hanno messo a fuoco, nel volgere degli anni, la figura della donna con le sue rappresentazioni, coi suoi simulacri e le sue imitazioni, le oggettivizzazioni e le relativizzazioni, senza mai aver paura di scivolare nel grottesco o addirittura nel kitsch, anzi in certa parte sdoganandoli in maniera definitiva.
Un fondamentale riscontro e, se vogliamo, una summa di numerose delle linee espressive percorse nella sua carriera, li troviamo nella mostra Cindy Sherman – Untitled Horrors, all’Astrup Fearnley Museet di Oslo.
Le opere della Sherman cavalcano il limitare, sottilissimo, tra ironia e crudeltà, e l’imbruttimento del soggetto, se stessa, appunto, attraverso l’utilizzo di trucchi e maschere, conferisce a questi “autoritratti” una silenziosa ma potentissima forza sovversiva.
In fondo, la definizione e ridefinizione continua di canoni di bellezza (ma anche di bruttezza) non è uno dei perni principali sui quali ruota, da un punto di vista estetico, la nostra comunità? Cindy Sherman si limita (come se fosse poco) a riflettere su immagini ricorrenti, quasi ossessive, ridisegnandole e, più di una volta, violentandole, per farci vedere come dietro il “bello costituito” ci sia spesso l’orrore della forma.
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