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CINEMA E SURREALISMO #avanguardia #film #estetica

Creato il 16 ottobre 2013 da Albertomax @albertomassazza

bunuelNell’ottobre del 1924, a Parigi, pressoché contemporaneamente, Andrè Breton pubblicò il Manifesto del surrealismo e René Clair presentò un cortometraggio che doveva fungere da intervallo per un balletto di ispirazione dadaista, prodotto da Rolf de Maré per Jean Borlin e i Ballets suédois. Il titolo stesso del cortometraggio, Entr’acte (Intermezzo), faceva riferimento alla sua funzione d’uso, ma anche alla concezione artistica effimera e transitoria del movimento artistico zurighese. La presenza come sceneggiatore di Francis Picabia, sia per il balletto che per il cortometraggio, confermava la matrice dadaista del progetto, anche se il movimento, esaurita la forza propulsiva, si era di fatto sciolto nel 1923. Le musiche, sempre per entrambi, vennero scritte da un altro grande sperimentatore anticonformista, Erik Satie. Tutti gli autori erano presenti anche come attori, così come un buon numero di artisti di spicco della scena parigina,  tra i quali, tanto per fare tre nomi, Man Ray, Marcel Duchamp e Darius Milhaud.

Il film, accolto trionfalmente negli ambienti dell’avanguardia parigina, tendeva comunque ad oltrepassare il nonsense e l’anti-arte dadaista. Questo, a mio parere, in parte era dovuto alla sensibilità di Clair, allora ventiseienne e destinato a diventare un padre nobile del cinema francese; ma soprattutto, alla natura intrinseca del cinema che tende a connotare anche ciò che, nelle intenzioni dell’autore, non dovrebbe avere significato. Lo stesso Breton, nelle sue memorie, aveva confessato che in gioventù era diventato un cannibalico consumatore di cinema popolare proprio per avervi trovato un’innata componente surreale. La fluidità e l’automatismo del film ne facevano mezzo privilegiato per la rappresentazione onirica. La concomitanza di un’impressione di realtà pressoché totale e della massima libertà di destrutturarla attraverso il montaggio lo rendevano aperto a un’infinità di rimandi simbolici e di chiavi interpretative.

D’altronde, già dai tempi pionieristici, accanto al filone realistico dei fratelli Lumiere, Georges Meliès aveva intuito e sviluppato le possibilità di un cinema fantastico, attraverso l’utilizzo di tecniche proprie dell’illusionismo, sua disciplina di provenienza, e una rudimentale quanto geniale  tecnica di montaggio. Nei primi anni venti, a Berlino, alcuni artisti (Hans Richter, Viking Eggeling e Walter Ruttman) portarono le innovazioni dell’astrattismo e del cubismo nel linguaggio cinematografico. A Parigi, un analogo percorso venne intrapreso da artisti quali Fernand Leger (Ballet Mecanique, 1924), Marcel Duchamp (Anemic Cinema, 1925, in collaborazione con Man Ray) e lo stesso Man Ray(L’etoile de mer, 1928). Gli esiti dei loro lavori, seppur legati alle radici futuriste, cubiste, astratte e dadaiste, proprio perchè reinterpretate attraverso il mezzo filmico, sintetizzavano un nuovo orientamento dell’avanguardia che tendeva ad incanalare le energie iconoclaste dei primi due decenni del secolo nella prospettiva di un nuovo immaginario collettivo, capace di far emergere con chiarezza archetipi e pulsioni represse, alla luce della rivoluzione antropologica di Malinowski e di quella psicanalitica di Freud e Jung. Le avanguardie storiche, il dadaismo in particolare, finirono col rappresentare una sorta di età dell’innocenza della nuova avanguardia, la quale non si limitava più all’abbattimento dell’estetica classica, ma si prefiggeva di rivoluzionare radicalmente la società.

Il cinema surrealista in senso stretto si limitò a pochi titoli, ma le sue istanze influenzarono profondamente gli sviluppi successivi della cinematografia mondiale. Un tentativo pienamente ascrivibile al surrealismo fu quello rappresentato dalla sceneggiatura La coquille et le Clergyman di Antonin Artaud, surrealista della prima ora, uscito dal gruppo in polemica per l’adesione dei membri al Partito Comunista Francese, avvenuta alla fine del 1926. Il film venne girato nel 1928 da Germaine Dulac e metteva a nudo le relazioni di causa ed effetto tra repressione e ossessione sessuale. L’incapacità della regista di slegarsi completamente dai moduli narrativi tradizionali portò a un risultato che non soddisfece Artaud, il quale entrò in forte contrasto con la Dulac. Decisamente più compiuti furono gli esperimenti portati avanti da Luis Bunuel in collaborazione con Salvador Dalì.

Il primo di questi fu un cortometraggio presentato nel 1929 con il titolo di Un chien andalou (Un cane andaluso), una concatenazione di scene molto forti e senza un apparente filo logico, ma con rimandi molto precisi, come nella sceneggiatura di Artaud, ai rapporti tra repressione e ossessione sessuale, in chiave fortemente antiborghese e anticlericale. Celeberrima la sequenza d’apertura del cortometraggio, in cui un uomo, interpretato dallo stesso regista, dopo aver affilato al chiaro di luna un rasoio, lo usa per tagliare in due l’occhio di una donna, a chiarire la necessità di un nuovo atteggiamento di fruizione dell’opera cinematografica. In l’Age d’or, lungometraggio di oltre un’ora del 1930, le stesse tematiche vennero sviluppate su un impianto narrativo più strutturato. L’identificazione di Cristo con un personaggio delle 120 giornate di Sodoma di De Sade e la rappresentazione di tre pontefici ridotti a scheletri gli valsero l’accusa di blasfemia. Nel successivo Las Hurdes, girato in Estremadura nel 1932, Bunuel dimostrò  la capacità del surrealismo di indagare e rappresentare con forza il disagio sociale.

Nonostante l’esiguità dei lavori propriamente surrealisti, il movimento ebbe una fondamentale importanza nel rivoluzionare i codici di espressione della successiva storia del cinema. Oltre al lavoro dello stesso Bunuel che introdusse stilemi surrealistici anche nella sua produzione più strettamente narrativa, trovando un degno epigono in Alejandro Jodorowsky (El topo del 1971, La Montagna Sacra del 1973 e Santa Sangre del 1988), il surrealismo come forma di rappresentazione del non visibile ha condizionato la gran parte dei maggiori cineasti della storia. A partire dal realismo poetico di Jean Renoir e Jean Vigo per arrivare a certo kolossal fantasy degli ultimi decenni, l’innovativo codice linguistico del surrealismo è stato utilizzato per dare una maggiore forza rappresentativa alle scene di carattere onirico e simbolico. Tra i tanti, vorrei ricordare due riletture originalissime del surrealismo: quella di Hitchcock che lo utilizzò per caricare maggiormente la tensione dei suoi thriller e che in Io ti salverò del 1945 si avvalse addirittura delle scenografie di Dalì; e quella di Fellini che risolse la frattura tra conscio e inconscio nell’abbandono a una memoria mitizzata.



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