Sono molto felice di riaprire la rubrica delle interviste, dopo la pausa estiva, con Loredana Lipperini. Le domande e le relative risposte stavolta sono più di cinque; ma avendo avuto la possibilità di raggiungere la saggista, giornalista, conduttrice radiofonica tra una puntata di Fahrenheit e una presentazione del suo ultimo libro, non mi sono lasciata sfuggire l’occasione di parlare con lei il più a lungo possibile.
Per le note biografiche vi rimando alla voce di Wikipedia. Qui mi limiterò a ricordare il suo precedente lavoro Ancora dalla parte delle bambine (Feltrinelli, 2007), nel quale Loredana si è occupata di una delle cosiddette “fasce deboli”, quella dell’infanzia, “che è forse tanto più debole quanto più è sotto i riflettori” dice. Non è un paese per vecchie si occupa di femminile e discriminazione in modo diverso: se le “bambine” individuavano una società standardizzata, qui lo sguardo dell’autrice si sposta su un mondo che non accetta l’invecchiamento.
1. Perché hai deciso di occuparti di questo argomento?
Mi infastidiva profondamente l’idea che i vecchi fossero in qualche modo invisibili. La nostra società è profondamente radicata nel presente ed è quindi abbarbicata al mito della giovinezza. Non si riesce a concepire la fine, o il modificarsi, di un ciclo vitale; invecchiare e morire è considerata una cosa da perdenti. Mi infastidiva inoltre che si continuasse a pensare che i mali del mondo fossero dovuti alle persone più anziane, che porterebbero via il lavoro ai giovani... laddove le cifre dicono che non è così. In Italia lavora solo il 38% della popolazione tra i 51 e i 64 anni, contro il 70% della Svezia. Anzi, esiste una risoluzione dell’Unione Europea della quale non si parla mai, che ci avrebbe imposto di arrivare a un 50% dal quale siamo ben lontani.
2. Che cosa c’è di particolare, nel nostro Paese, che rende difficile crescere libere se si è bambine e vivere libere se si è anziane?
A partire dalla seconda metà degli anni ’80 si è cominciato a pensare non più in termini di comunità, bensì del “nostro amabile appartamento” e dei pochi eletti che possono avervi accesso; ovvero, si tende a chiudersi nel proprio recinto. Si è persa la capacità di progettualizzare comunemente. Non è un caso che l’Italia sia uno dei Paesi d’Europa nei quali la disuguaglianza fiscale è più forte; un Paese nel quale i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Non è un caso che l’Italia sia penultima in Europa per l’assistenza alle famiglie. Il nostro è un Paese egoista. Salvo magari indignarsi per tre giorni su un fatto di cronaca, e poi dimenticarlo.
Il problema delle donne è ad un tempo consequenziale e centrale, perché la questione femminile è sempre stata la cartina di tornasole dalla quale giudicare la salute di un Paese. Nel nostro ci sono, ovviamente, alcune problematiche relative all’immaginario. La donna vincente è quasi sempre rappresentata come bellissima, magrissima e aderente a un unico canone di bellezza; le ultime 5 vincitrici del concorso di Miss Italia, ad esempio, sono molto simili tra loro. Questa situazione condiziona sia le bambine, che sono chiamate ad “adultizzarsi” precocemente, sia le madri, sia le donne mature e le vecchie. Parallelamente viviamo una condizione sociale che fa sì che, nonostante molte persone possano opporre “nel mio ambiente non è così”, le donne sono tuttora svantaggiate. Guadagnano meno dei colleghi maschi a parità di incarico e in Italia lavora solo il 47% delle donne contro, ancora una volta, il 60% dell’Unione Europea.
3. Per quale ragione gli stereotipi di genere hanno attecchito più in Italia che altrove?
Temo che la maggior responsabile sia la televisione, o almeno un certo tipo di televisione. Come ci dice Tullio de Mauro, la maggior parte degli italiani si forma attraverso il piccolo schermo. Ti farò una data: il 1983, prima puntata di Drive In. Da allora è stata proposta, se non imposta, un’immagine di donna seduttiva e completamente muta. Le studentesse italiane sono le più brave ma sono anche quelle che, quando escono dall’Università e cercano un lavoro, si trovano davanti a un muro. Non è un caso che molte aspiranti “veline” siano laureate e in alcuni casi anche bocconiane; la mancanza di prospettive in altro senso e un immaginario televisivo che non ha uguali in Europa – ripeto: non ha uguali – le spingono a cercare una scorciatoia che ritengono legittima.
4. Che cosa possiamo fare per combattere questa cultura?
Prendere coscienza. Questo per me è sempre il primo passo. Cercare di capire quello che ci sta intorno, al di là degli stereotipi, e parlarne il più possibile. Poi, certo, le strade dovrebbero essere due: una che riguarda il sociale e una l’immaginario. Sul piano sociale è evidente che occorre pretendere dai partiti che mettano un discorso sul “welfare” e sulle discriminazioni reali ai primi posti del programma elettorale. E se questo non accade, se non passa l’idea che il modello svedese, o anche quello tedesco, non è per noi una mera utopia, bisognerebbe forse togliere la fiducia che si è data a determinate forze della politica, o partitica che dir si voglia. Riguardo all’immaginario, occorre cominciare a cambiarlo.
5. Internet può aiutarci a cambiare l’immaginario?
Certo, come tutti i luoghi nei quali si può creare e sviluppare una comunità; purché però non sia usato, ancora una volta, per soddisfare personali narcisismi, ma piuttosto per svolgere azioni concrete. Ad esempio utilizzando Internet è possibile denunciare le pubblicità offensive o discriminatorie allo IAP, Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria; quindi, fatelo!
6. Ritieni che Internet abbia cambiato, e possa ancora cambiare, la lettura e la scrittura?
Sì, senz’altro. In primo luogo il Web ha contribuito ad ampliare la scrittura: grazie a questo mezzo si scrive moltissimo e si ha un numero di lettori in potenza enorme. Dallo “stato” di Facebook al post di un blog, la “cultura orale di ritorno” di cui parlava Walter J. Ong negli anni ’90 è stata ampiamente superata. È inoltre evidente che la rete aiuta la lettura: può contribuire a riportare attenzione su testi che sono andati fuori commercio e non si trovano più; può far sì che quantomeno si discuta di libri diversi da quelli normalmente proposti dall’industria. È la cosiddetta “coda lunga della rete”. Il Web può persino contribuire a rendere quei testi di nuovo reperibili. Riguardo ai libri elettronici, preferirei non fare previsioni perché il mercato italiano da questo punto di vista è ancora troppo agli inizi.
7. Credi che esista una “scrittura femminile”?
Sì e no. No, perché uno scrittore è uno scrittore, che sia uomo, donna, gay, transessuale o appartenga ancora a un altro genere; la mia amica Giovanna Cosenza ne ha enumerati diciassette! Sì, perché ognuno di noi è un animale sociale, quindi è immerso in una cultura ed è portatore anche dei suoi stereotipi. Ciò detto, sfido chiunque a leggere Antonia Byatt e definirla una scrittrice per donne; oppure Marguerite Yourcenar.
Grazie, Loredana! E chi desidera maggiori informazioni su Non è un paese per vecchie può trovare numerose recensioni e interviste in rete, che di norma l’autrice riporta o segnala sul suo blog Lipperatura, molto seguito e autorevole. Inoltre, su questa pagina si può vedere un’anteprima del libro e leggere un estratto.
Foto: Lotta Valente.
Loredana Lipperini parla di “Non è un paese per vecchie”
“Non è un paese per vecchie” si può ordinare su:
* Bol.it
* laFeltrinelli.it
* Webster.it.
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Cinque domande a Loredana Lipperini, autrice di “Non è un paese per vecchie”
Creato il 11 ottobre 2010 da Rita Charbonnier @ritacharbonnierPossono interessarti anche questi articoli :
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