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Cinque motivi (e una cartolina) per fare pace con Paolo Conte

Creato il 05 novembre 2014 da Massimo

Questo articolo è apparso su Rockit ma qui c’è l’originale, con una cartolina al posto del ragionamento.

Cinque motivi (e una cartolina) per fare pace con Paolo Conte

Ogni riferimento a foto di persone realmente esistenti è puramente casuale | foto di Roberto Coggiola

Devo fare una confessione, cercando di non espormi troppo: mi piace molto un autore e compositore di Asti. Devo farne un’altra: gli ultimi tre album in studio di questo personaggio non mi hanno entusiasmato. Non ditelo a nessuno. A parte qualche batticuore sparato qua e là, il complesso dei tre album non suonava più come qualcosa di unico, toccato dalla grazia, ma piuttosto come qualcosa di già toccato e basta, peggio ancora bloccato dal tempo, il tempo che prima passava anche sotto ai sofà e dopo si è arenato sotto, senza quella selvaggia ispirazione che da sempre muoveva questo personaggio anche al buio e s’illuminava Paolo Conte.

In occasione della laurea honoris causa in Lettere Moderne all’Università di Macerata, Paolo Conte tenne una lectio doctoralis dal titolo: “I tempi dell’ispirazione: il pomeriggio”. Devo fare un’altra confessione, simile a un sospetto: credo che negli ultimi tempi il nostro amico abbia lavorato soltanto di pomeriggio.

Aspetto sempre un nuovo lavoro di Paolo Conte come aspetto l’estate dopo troppo inverno. Solo che l’estate arriva puntuale ogni anno, mentre Paolo Conte arriva sempre quando pare a lui. Questa volta, dopo quattro anni di silenzio, è tornato in autunno, e ha portato l’estate.
Snob, si potrebbe definire qualcuno che sposta le stagioni dell’ispirazione a suo piacimento. Snob, è invece il titolo del nuovo album di Paolo Conte: quindici brani come sono quindici gli album in studio dell’artista che ha insegnato al mondo quanto uno Zazzarazà, possa significare più di tante parole.
Confesso, poi però basta, che dopo avere ascoltato l’intero disco per tanti pomeriggi, l’ispirazione era quella di provare a raccontare ogni brano, ma visto che parlare di musica è come ballare d’architettura, mi fermerò ai cinque motivi per fare pace con Paolo Conte nel caso in cui qualcuno, come me, ci avesse bisticciato per tre album consecutivi.

Cinque motivi (e una cartolina) per fare pace con Paolo Conte

La copertina dell’album che arriva in segno di pace | Foto di Renzo Chiesa

Il primo motivo si chiama Si sposa l’Africa e porta con sé lo stesso stupore di ritrovare per caso un vecchio amico che ha detto esco a prendere le sigarette e non si è visto più. Voglio dire, uno magari è lì col muso perché gli hanno rubato la macchina, la morosa l’ha lasciato e ha perso il portafoglio, poi ascolta la prima traccia del disco e ritrova di colpo il sorriso sulle labbra, la macchina sotto casa, la morosa alla porta, il portafoglio in tasca e una partita di tennis in una terra rossa d’Africa: un matrimonio in uno sperduto villaggio in mezzo alla savana, dove all’improvviso spunta una pallina da tennis che rende tutti – sposi, invitati, capre e nuvole – soci di Wimbledon.
Qualcuno potrebbe domandarsi come fa Paolo Conte ogni volta a inventarsi accostamenti del genere, specialmente ora che ha raggiunto un’età in cui, si potrebbe pensare, dopo tanto tempo, dovrebbe avere anche smesso di cercare l’Africa in giardino. È una bella domanda. Esiste anche una risposta. L’ha data lo stesso Conte a un collega musicista che nel 1991 non era ancora presidente della SIAE ma curava una rubrica d’interviste su “Arancia blu”, una rivista di ecologia politica che usciva con “il Manifesto”. In tema di studio sulla relazione tra le parole, Paolo Conte disse: “Molti artisti approfittano delle problematiche contemporanee per avere materiale su cui scrivere canzoni, mentre a mio parere l’unico patrimonio del nostro mestiere, se vogliamo essere franchi e sinceri, dovrebbe essere la fantasia.”

Siamo franchi e sinceri, non bisogna avere paura della fantasia: Paolo Conte continua a dimostrarci di non averne mai avuta, lui non ha mai avuto paura di niente, nemmeno di farsi intervistare da Gino Paoli. Piuttosto, nonostante le interviste e le canzoni di un’intera carriera, possiamo dire che Paolo non ci ha ancora detto tutto. Ad esempio non ci ha mai parlato della mazurka: glielo perdoniamo, ha recuperato in questo album.
Con Signorina saponetta gli perdoniamo tutto fuori che la durata del brano. Neanche inizia ed è già finito. Il festoso epicentro di “Signorina saponetta” è una marcetta saltata su un materasso di pianoforte, kazoo e macchine da scrivere che suonano come Jerry Lewis in Dove vai sono guai! (Who’s Minding the Store?). Però si avverte anche un buon profumo di fiordaliso, il zzzzzz di una zanzara, un gatto che miagola, una saponetta che scivola, un grammofono che sfrigola, un ballo in costume e dietro una maschera il ghigno di suo fratello Giorgio, travestito da rima baciata, mentre sorseggia un’aranciata.

Vieni qui con noi a bere un’aranciata”. Ho sempre adorato le semplici incursioni di realtà nei testi delle canzoni di Conte. Quella sorta di parla come mangi che è anche il tema centrale di Snob: la title track dell’album e terzo motivo per fare pace con Paolo Conte.
La canzone ha un incedere malinconico, ma il testo è di quelli che ti sorprendono a sorridere quando meno te lo aspetti. E i dischi di Conte, specialmente gli ultimi, a parte qualche scoreggia nel buio dell’orchestrina, erano anni che non ci sorprendevano con un sorriso.
Da una parte c’è una donna che di punto in bianco inizia a parlare snob, con tutte le erre arrotondate come a ricalcare i modi di qualcuno con tre cognomi e sangue blu di cui probabilmente ha una simpatia; dall’altra c’è un uomo innamorato che prova a riportare questa simpatia sulla giusta via, quella strada provinciale in cui le cose che mangiamo sono sostanziose come le cose che tra di noi diciamo. Ci prova, ma per carità, per amore poi si fa tutto, così prova anche lui ad essere snob: dunque provate anche voi ad ascoltare Conte mentre pronuncia s-t-v-a-p-a-z-z-a-v-o tutte le e-v-v-e, poi mi dite se non vi sorprendete a sorridere.

A volte sono i vecchi ricordi a farci più sorridere, altre volte i ricordi sono solo scatole chiuse che sarebbe meglio lasciare dove sono state nascoste. Argentina è un ricordo scoperchiato, una malinconia che viene da lontano e guarda in alto, verso il cielo riservato ai vecchi emigranti, in uno di quei temi tanto cari al primo Conte che qui si ripete, ma senza inciampare in quel senso di déjà vu a cui si potrebbe pensare. Qui è tutto nuovo, anche il ricordo che è bianco e sembra sempre di mattina, che è baccano nel porto davanti a un enorme mare americano, dove c’è una donna india amata dal silenzio con cui fu riverita.
Oltre che le classifiche e i tasti di un pianoforte, io non so se Paolo Conte abbia mai scalato qualcosa in vita sua. Probabilmente no. Però questa canzone fa davvero venire voglia di arrampicarsi in cima a un’avventura, un tempo chiamata casa, senza la paura di guardare giù.

Il concetto di casa è anche alla base dell’ultimo motivo per fare pace con Paolo Conte. Tutti a casa è una canzone d’amore a tempo. Il tempo misurato da un uomo che ha lasciato il cuore allo scoperto, tra il freddo, l’inverno e la nebbia che avvolge la vita di strada, mentre nel calore delle case ci sono stanze illuminate che non sanno niente di quanta dolcezza può nascondersi nelle gambe di una donna che si scalda davanti a un falò.
Conte usa tutta la delicatezza di cui è capace per tratteggiare una storia a cui manca un finale, che possa degnamente chiamarsi amore. I suoi testi, col tempo sempre più stilizzati e quasi abbozzati, confermano un’unica grande verità: a Paolo Conte per raccontare una storia bastano tre frasi. Alle persone normali ne occorrono ventisette. Il resto è musica che avvolge, riveste e descrive tutto ciò che non viene scritto. Per lui è stato sempre così e così sarà per sempre. Il maestro è nell’anima e dentro all’anima per sempre resterà. Non esistono al giorno d’oggi molti maestri in grado di allestire interi universi con consegna a domicilio, sono una categoria protetta che merita un abbraccio e un saluto in cartolina, da una città chiamata Bologna.

Paolo, stai serio con la faccia ma però, ridi con gli occhi, io lo so | foto di Sophie Leroux

Paolo, stai serio con la faccia ma però, ridi con gli occhi, io lo so | foto di Sophie Leroux

Caro Paolo,

qualcuno probabilmente più giovane di te ha detto che hai settantasette anni suonati. Sono d’accordo, perché con questo disco hai dimostrato di poterli ancora suonare come, dove e quando ti pare: in autunno, di pomeriggio, tra le ombre verdi di un bovindo, gustando un’acqua al tamarindo; giunto a questo punto della tua vita puoi fare tutto quello che vuoi. Offrire l’intelligenza degli elettricisti, trovare qualcuno che possa amare senza stancarsi il tuo cuore e i tuoi piedi, disfare finalmente una valigia piena di perplessità, affascinarti il cuore con un libro che ti avevo regalato e chissà dov’è finito, strappare un sorriso di tregua ad ogni accordo, fare un’altra foto col colombo in mano, concederti un pranzo da pascià ad esempio qui a Bologna, a casa mia, con caviale, paté e champagne parlando di provincia, davanti a un enorme mare americano, senza stvapazzave tutte le evve, con la nebbia e l’inverno che c’è, mentre passa un cane e una bici più in là. Però possiamo anche stare in silenzio, se vuoi. Quello di chi tace acconsente. Allora siamo d’accordo, ti aspetto. Se poi non ti va di venire da me nessun problema, vengo io da te: da oggi ho cinque motivi in più per volerti bene.



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