“Più veloce! Più alto! Più forte!” – recita il motto olimpico. Fu ideato dal predicatore domenicano Henri Didon e subito adottato dal barone Pierre de Coubertin, l’uomo che ha voluto i Giochi Olimpici moderni. Il Comitato Olimpico Internazionale lo fece suo nell’anno della sua fondazione, il 1894, ma lo utilizzò solo a partire dalle Olimpiadi di Parigi del 1924. Non è difficile riconoscere in questa espressione latina il fine ideale delle competizioni olimpiche, cioè il superamento dei propri limiti. Tant’è che De Coubertin ha voluto precisare che “l’importante non è vincere ma partecipare”. In questi giorni, le Olimpiadi di Londra stanno catalizzando l’attenzione del mondo intero, sono l’evento clou dell’estate, ed è inevitabile riflettere sul senso reale di un motto che oscilla fra l’esortazione e l’imperativo, fra lo sprone e il comando. Pare che il famoso retore e filosofo greco Gorgia abbia dichiarato che “la parola, come l’araldo in Olimpia, chiama chi ha volontà ma incorona chi ha forza”. Va da sé che non basta volere essere più veloci, più alti e più forti degli altri. Per riuscirci occorrono la forza, il talento e un po’ di fortuna.Ma non è questo il punto su cui voglio meditare. Mi pongo invece un’altra domanda: in che misura il motto olimpico riflette le aspirazioni umane? E quali sono le vere, profonde e più intime aspirazioni del genere umano? Una prima, superficiale risposta potrebbe essere quasi ovvia. Gli uomini desiderano la gloria, il successo, il denaro, il potere, l’amore e la felicità. Ho citato queste sei aspirazioni in ordine sparso e si potrebbe discutere a lungo sulle priorità. Quali di questi sei valori salirebbero sul podio? A chi andrebbe la medaglia d’oro? Ma poi, siamo certi che “Citius! Altius! Fortius!” sia l’epitome di questi desideri o non rappresenti piuttosto la quintessenza di un settimo e più celato bisogno dell’essere umano? Il lettore si chiederà a cos’altro mi riferisco e non esito ad affermare che nell’animo umano fermenta come nel tino un anelito superiore, un’ambizione che prevarica il desiderio di affermazione e riconoscimento personale. Le tante letture e gli studi che hanno segnato la mia crescita culturale oltre che umana mi aiutano a riscontrare nelle opere dei grandi pensatori le tracce del vero, intimo afflato umano. Platone pensava che la vita sia il continuo sforzo dell’anima per salire dal mondo transeunte e corruttibile del fenomeno al mondo puro delle idee. Detto così, sembra un concetto difficile da comprendere. In realtà, il suo pensiero è luminoso: l’uomo è depositario dell’ansia di eterno e divino. Ciò che ci distingue dalle bestie è proprio la capacità di intuire che siamo frammenti del divino in viaggio nel tempo e nello spazio. Ritroviamo questo concetto in un altro grande pensatore, Giordano Bruno. Il grande filosofo e frate domenicano che l’inquisizione della Chiesa romana condannò al rogo per eresia, ha ribadito nell’omonimo dialogo che l’animo umano è reso febbricitante dagli “eroici furori”. Il nostro spirito ha l’esigenza di attingere a mete sempre più alte (“Altius!”), in uno slancio che ci conduca ritrovare e affermare il divino che è in noi. Molti sono gli autori che hanno riassunto metaforicamente nelle loro opere l’anelito a correre più veloci, salire più in alto ed essere più forti. Mi vengono in mente i drammi di Vittorio Alfieri e i romanzi di Kafka, che trasudano della segreta aspirazione a incontrarsi con Dio. Aspirazione insopprimibile che secondo Malraux è la causa primaria della misera “condizione umana”. L’uomo vorrebbe essere come Dio mentre in realtà non riesce ad essere nemmeno se stesso. Nel XX secolo, coloro che più di altri colsero il misterioso appetito dell’animo umano furono i grandi della psicologia. Jung diceva che nell’uomo c’è un anelito di universalità, un ardente desiderio di completezza e di rinascita. Fromm credeva che l’uomo ha tra i suoi bisogni primari la trascendenza, che altro non è se non il bisogno di elevarsi al di sopra della propria natura per divenire creatore da semplice creatura che è. Anche per Adler l’uomo aspira alla perfezione e alla superiorità. Ce n’è abbastanza per rileggere il motto olimpico nella sua accezione esoterica. Essere più veloci, più alti e più forti è solo apparentemente la conditio sine quanon per eccellere (nello sport come in ogni altro settore della vita) mentre in realtà indica un bisogno inconscio più complesso. Vincendo i 100 m. e i 200 m., Usain Bolt non ha dimostrato solo d’essere l’essere umano più veloce del pianeta, ottenendo fama e denaro. Mentre il suo corpo scultoreo sfidava i limiti della fisica, la sua anima esprimeva un bisogno di infinito e di eternità che lo accomuna a qualunque altro essere umano, anche il meno dotato fisicamente. È questo il vero principio motore dell’umanità e della storia, grazie al quale nel corso dei millenni sono state fatte scoperte e conquiste che hanno sancito il progresso della civiltà. “Citius! Altius! Fortius!” non dovrebbe essere solo il motto degli atleti che partecipano alle Olimpiadi ma l’aforisma paradigmatico dell’immensa pletora di scienziati, esploratori, pensatori, costruttori e innovatori che hanno contribuito a far progredire la razza umana in virtù del loro anelito di trascendenza. Ecco perché, in queste ore, dovremmo sentirci tutti partecipi dello spirito olimpico. Siamo tutti atleti che competono. Non per una medaglia ma più semplicemente per migliorare la nostra vita e quella degli altri. Ognuno come può, compatibilmente col proprio DNA e col proprio ruolo. Ma guai se pensassimo di non poter superare i nostri limiti. Il mondo ci chiede di farlo. Ha bisogno anche del nostro contributo e poco importa se non ci sarà SKY HD a riprendere le nostre piccole-grandi performances. Basterà un “bravo” detto da chi ci ama per sentire ardere nel nostro petto il fuoco di Olimpia.
“Più veloce! Più alto! Più forte!” – recita il motto olimpico. Fu ideato dal predicatore domenicano Henri Didon e subito adottato dal barone Pierre de Coubertin, l’uomo che ha voluto i Giochi Olimpici moderni. Il Comitato Olimpico Internazionale lo fece suo nell’anno della sua fondazione, il 1894, ma lo utilizzò solo a partire dalle Olimpiadi di Parigi del 1924. Non è difficile riconoscere in questa espressione latina il fine ideale delle competizioni olimpiche, cioè il superamento dei propri limiti. Tant’è che De Coubertin ha voluto precisare che “l’importante non è vincere ma partecipare”. In questi giorni, le Olimpiadi di Londra stanno catalizzando l’attenzione del mondo intero, sono l’evento clou dell’estate, ed è inevitabile riflettere sul senso reale di un motto che oscilla fra l’esortazione e l’imperativo, fra lo sprone e il comando. Pare che il famoso retore e filosofo greco Gorgia abbia dichiarato che “la parola, come l’araldo in Olimpia, chiama chi ha volontà ma incorona chi ha forza”. Va da sé che non basta volere essere più veloci, più alti e più forti degli altri. Per riuscirci occorrono la forza, il talento e un po’ di fortuna.Ma non è questo il punto su cui voglio meditare. Mi pongo invece un’altra domanda: in che misura il motto olimpico riflette le aspirazioni umane? E quali sono le vere, profonde e più intime aspirazioni del genere umano? Una prima, superficiale risposta potrebbe essere quasi ovvia. Gli uomini desiderano la gloria, il successo, il denaro, il potere, l’amore e la felicità. Ho citato queste sei aspirazioni in ordine sparso e si potrebbe discutere a lungo sulle priorità. Quali di questi sei valori salirebbero sul podio? A chi andrebbe la medaglia d’oro? Ma poi, siamo certi che “Citius! Altius! Fortius!” sia l’epitome di questi desideri o non rappresenti piuttosto la quintessenza di un settimo e più celato bisogno dell’essere umano? Il lettore si chiederà a cos’altro mi riferisco e non esito ad affermare che nell’animo umano fermenta come nel tino un anelito superiore, un’ambizione che prevarica il desiderio di affermazione e riconoscimento personale. Le tante letture e gli studi che hanno segnato la mia crescita culturale oltre che umana mi aiutano a riscontrare nelle opere dei grandi pensatori le tracce del vero, intimo afflato umano. Platone pensava che la vita sia il continuo sforzo dell’anima per salire dal mondo transeunte e corruttibile del fenomeno al mondo puro delle idee. Detto così, sembra un concetto difficile da comprendere. In realtà, il suo pensiero è luminoso: l’uomo è depositario dell’ansia di eterno e divino. Ciò che ci distingue dalle bestie è proprio la capacità di intuire che siamo frammenti del divino in viaggio nel tempo e nello spazio. Ritroviamo questo concetto in un altro grande pensatore, Giordano Bruno. Il grande filosofo e frate domenicano che l’inquisizione della Chiesa romana condannò al rogo per eresia, ha ribadito nell’omonimo dialogo che l’animo umano è reso febbricitante dagli “eroici furori”. Il nostro spirito ha l’esigenza di attingere a mete sempre più alte (“Altius!”), in uno slancio che ci conduca ritrovare e affermare il divino che è in noi. Molti sono gli autori che hanno riassunto metaforicamente nelle loro opere l’anelito a correre più veloci, salire più in alto ed essere più forti. Mi vengono in mente i drammi di Vittorio Alfieri e i romanzi di Kafka, che trasudano della segreta aspirazione a incontrarsi con Dio. Aspirazione insopprimibile che secondo Malraux è la causa primaria della misera “condizione umana”. L’uomo vorrebbe essere come Dio mentre in realtà non riesce ad essere nemmeno se stesso. Nel XX secolo, coloro che più di altri colsero il misterioso appetito dell’animo umano furono i grandi della psicologia. Jung diceva che nell’uomo c’è un anelito di universalità, un ardente desiderio di completezza e di rinascita. Fromm credeva che l’uomo ha tra i suoi bisogni primari la trascendenza, che altro non è se non il bisogno di elevarsi al di sopra della propria natura per divenire creatore da semplice creatura che è. Anche per Adler l’uomo aspira alla perfezione e alla superiorità. Ce n’è abbastanza per rileggere il motto olimpico nella sua accezione esoterica. Essere più veloci, più alti e più forti è solo apparentemente la conditio sine quanon per eccellere (nello sport come in ogni altro settore della vita) mentre in realtà indica un bisogno inconscio più complesso. Vincendo i 100 m. e i 200 m., Usain Bolt non ha dimostrato solo d’essere l’essere umano più veloce del pianeta, ottenendo fama e denaro. Mentre il suo corpo scultoreo sfidava i limiti della fisica, la sua anima esprimeva un bisogno di infinito e di eternità che lo accomuna a qualunque altro essere umano, anche il meno dotato fisicamente. È questo il vero principio motore dell’umanità e della storia, grazie al quale nel corso dei millenni sono state fatte scoperte e conquiste che hanno sancito il progresso della civiltà. “Citius! Altius! Fortius!” non dovrebbe essere solo il motto degli atleti che partecipano alle Olimpiadi ma l’aforisma paradigmatico dell’immensa pletora di scienziati, esploratori, pensatori, costruttori e innovatori che hanno contribuito a far progredire la razza umana in virtù del loro anelito di trascendenza. Ecco perché, in queste ore, dovremmo sentirci tutti partecipi dello spirito olimpico. Siamo tutti atleti che competono. Non per una medaglia ma più semplicemente per migliorare la nostra vita e quella degli altri. Ognuno come può, compatibilmente col proprio DNA e col proprio ruolo. Ma guai se pensassimo di non poter superare i nostri limiti. Il mondo ci chiede di farlo. Ha bisogno anche del nostro contributo e poco importa se non ci sarà SKY HD a riprendere le nostre piccole-grandi performances. Basterà un “bravo” detto da chi ci ama per sentire ardere nel nostro petto il fuoco di Olimpia.
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