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“Città distrutte. Sei biografie infedeli” di Davide Orecchio

Creato il 23 ottobre 2012 da Sulromanzo

“Città distrutte. Sei biografie infedeli” di Davide OrecchioAppare ormai chiaro come i narratori italiani abbiano ancora qualcosa da dire quando, liberi dai legacci di uno sperimentalismo che, nelle migliori delle ipotesi, diviene sinonimo di mera esasperazione linguistica o giovanilismo a buon mercato, riescono a svicolare da schemi logori e corrivi.

Così è per Città distrutte dell'esordiente Davide Orecchio (Gaffi, 2012), uno dei libri senz'altro più importanti e singolari di questa stagione, insieme a Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi. Due "romanzi" nel segno dell'ibridazione delle forme. Che, se Trevi compie l'operazione di appaiare critica letteraria e racconto, ripartendo dall'autobiografia intellettuale come prova d'immaginazione e di stile, Orecchio non è da meno, quando si appresta a rinnegare il romanzo-romanzo, scegliendo la via delle "biografie infedeli", per farlo poi rientrare dalla finestra. Mi spiego meglio.

I sei tasselli, muovendosi dichiaratamente sul terreno manzoniano della verosimiglianza, scritti nello «stile del resoconto», letti insieme, ambiscono a presentarsi (in profonda e interna coerenza) come i frammenti di un romanzo esploso, centrifugo, il cui disegno originario non è però difficile rintracciare in filigrana: è ancora il romanzo della violenza della storia e del naufragio esistenziale. E che si tratti di un affresco complessivo, di agevole ricomposizione , per il lettore, lo dimostra il fatto che ciascuna biografia costituisca la proiezione di una cruciale tematica: l'espropriazione crudele dei regimi, l'indomito desiderio di libertà e l'esilio (Ester Terracina, Un esilio), la passione politica (Eschilo Licursi), il marasma esistenziale che diviene fotografia dell'infezione che ha afflitto (e continua ad affliggere) un'intera nazione (Pietro Migliorisi), il prisma febbrile e insieme opacissimo della partita della vita che «va a rotoli» (Betta Rauch, Kauderer a Roma). La topografia apparecchiata con queste «città distrutte» si riaggrega, coagulandosi, sull'asse della storia; per cui a interessare (nonostante l'esibizione, per ciascun resoconto, della parte documentale e il disvelamento di chi ne ha ispirato il ritratto), infine, non sono più né gli originali né le loro controfigure, ma i prototipi, i nuclei di vita, di verità cui mirano le sei storie così composte.

Orecchio è mosso dal preciso intento di scrutare e scavare laddove l'onnipotenza della storia produce l'inesorabile trauma, frequentandone le aridissime regioni, poiché «il trauma è fertile, vorace, duraturo, virale. Capita che si trasmetta di padre in figlio. Può diventare cultura».

Detto questo, rischieremmo di mancare l'incontro offerto da un libro quanto mai necessario ed importante, qualora si omettesse la dovuta precisazione che la scrittura di Orecchio – arsa, arcigna, contratta ad arte – s'accampa qui, rispetto al trauma, come esperienza sì conoscitiva ma anche e soprattutto terapeutica. Poiché la letteratura, almeno quando è autentica, si impone come linea di rottura, scavo nell'originaria ferita e insieme balsamo, temerario passaggio al limite; luogo dove, alla fine, se lo strappo non si ricuce, almeno se ne riesce a intravedere, meglio, il senso.

Così è nell'attraversare questi millimetrati e chirurgici retabli di vita, romanzo non-romanzo di straordinaria tenuta, fulminante occasione di esorcizzare il fondo oscuro dei nostri deliri e dei nostri incubi, privati e collettivi. Sembra quasi che Davide Orecchio voglia suggerirci come l'aggirarsi entro un paesaggio di rovine umane e storiche, possa in qualche modo ridestare l'utopia d'un nuovo tempo di edificare, poiché, se Dio vuole, come annota Betta Rauch, la storia «è fatta [anche] di città distrutte e poi ricostruite».

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