Ci sono stanchezze invincibili, nelle quali ci imbattiamo anche nelle nostre città fatte di case colme di oggetti che dovrebbero alleviarle, che impastano insaponano battono tappeti risciacquano soffiano vapori detergono. Ieri sul piccolo bus elettrico di Roma è salita una signora molto stanca, nera, con uno di quegli abitucci di cotone a fiori, come li vedi nei film ambientati in Arizona e una sporta pesante. Zoppicava. E le sue mani erano inspiegabilmente pallide, sbiadite da bucati o saponata per interminabili pavimenti di uffici, banche, ospedali, sui quali camminiamo distratti e indifferenti a chi li lava la mattina molto presto quando noi ci srotoliamo fuori dalla notte.
Così le ho ceduto il posto. E in quella giornata che sembrava segnata dalla speranza che fossimo meno asserviti, più liberi, proprio dopo aver letto melensi e apologetici commenti sulla bellezza, bontà, dignità degli italiani fuori dalla tirannide, il mio gesto ha suscitato un coro unanime di critiche, sempre quelle miserabili che temo si possano sentire a tutte le latitudini, esclusa forse Lampedusa. Ci portano via il lavoro, dicevano, rubano, vivono alle nostre spalle, e lei gli dà anche il posto, magari non ha nemmeno pagato il biglietto. Magari è clandestina!
Clandestina, quello si che è un crimine per le signore ben pettinate sedute nel piccolo bus che attraversa il centro della capitale multietnica e molto fascista, direzione piazza di Spagna e piazza del Popolo, che di barbari ne ha visti tanti.
Dimentiche di altri delitti: anziani lasciati soli in case trascurate o in letti di ospedali, impalcature insicure, campi di pomodori, filari d’uva, malati “rimossi”, mattoni impilati a costruire magari muri per dividere noi privilegiati e garantiti da loro, i clandestini, gli irregolari, esposti a ricatti da parte di italiani brava gente o a pressioni malavitose, spaventati anche quando sono in regola, abituati a camminare rasente i muri, gli occhi bassi, per passare inosservati, invisibili, trasparenti. Eppure quelle signore ravviate e benpensanti magari come gli sdolcinati commentatori di ieri, si sentono la parte sana del paese, magari si dedicano al volontariato e si spendono in una onlus. E soprattutto a quegli invisibili affidano quanto hanno di più caro o di più ingombrante: figli, case, genitori, malati.
Ma appunto li vogliono immateriali, nascosti, clandestini anche quando non lo sono, perché così sono soggetti, vulnerabili a piccoli miserabili ricatti. E su di loro si può esercitare la rancorosa diffidenza e l’ostilità risentita di chi sta perdendo beni e privilegi e vuole rifarsi su chi è più giù, sommerso, escluso, stanco, solo.
Fingiamo tutti che il problema sia il multiculturalismo. Che la globalizzazione, l’irruzione di culture altre abbiano posto questioni formidabili: cittadinanza, laicità dello stato, pluralismo religioso, moschee, zingaropoli, assimilazione, integrazione, riconoscimento delle differenze, diversità culturali. Fingiamo che la coesione sociale sia garantita dalla condivisione di valori “statali”, che l’adesione a una identità e a una appartenenza debba avvenire siglando un contratto sia pure virtuale.
In Italia non è mai stato elaborato alcun modello di “integrazione”: a seconda delle diverse maggioranze di governo ha prevalso una concezione inclusiva o esclusiva dello straniero.
E a volte viene da pensare che forse è meglio così. Perché l’integrazione è proprio come il proverbio veneziano “piutosto che niente xe meglio piutosto”, è qualcosa che si colloca molto al di sotto e molto distante dalla cittadinanza. Ma è pur sempre preferibile all’assimilazionismo rudimentale in larga parte “prodotto” dalla Lega: gli immigrati sono accettabili con un certo sforzo se rispettano le nostre leggi e le nostre tradizioni, ma devono rinunciare alle proprie identità culturali etniche religiose in cambio della nostra magnanima e condizionata accoglienza condizionata ed arbitraria. Un “consenso” limitato che induce separatezza, che sbarra accessi, che riproduce intoccabili ghetti identitari, nei quali isoliamo loro e nei quali ci chiudiamo anche noi, diffidenti, impauriti, soli nelle nostre pingui enclaves.
Si c’è molto da fare in questo Paese che sta ritrovando la capacità di sperare e di disegnare il futuro. Per loro e per noi. Perché dentro al magma oscuro della separatezza e delle diffidenza crescono conflitti, perché non onorare chi arriva qui spinto dalla fame, dalla guerra, dalla disperazione è una slealtà nei confronti dei principi che regolano questo Paese che vuole essere democratico, perché i nostri figli nel terribile dipanarsi della storia e dei suoi sconvolgimenti, sono minacciati di esclusione e disperazione.