Magazine Cultura

Claudia Ruggeri, la sposa barocca che corteggiava la morte

Creato il 01 settembre 2010 da Cultura Salentina

di Augusto Benemeglio

Claudia Ruggeri, la sposa barocca che corteggiava la morte (II/III)

Claudia Ruggeri

4. In realtà, pochissimi conoscono la poesia di Claudia, e ancor meno sono quelli che la comprendono proprio per il pastiche del linguaggio, che non è per nulla facile, né popolare, ma la Ruggeri ha una sua originalità cristallina, soprattutto il suo nome significa bellezza, e la bellezza in questa nostra era è ormai in fuga, se ne è ghiuta, o sta per farlo; Claudia significa grazia e gentilezza, e noi viviamo il tempo della volgarità, della maleducazione, della perdita d’ogni forma; Claudia significa attesa, stupore e mistero, e noi abbiamo perduto anche questi sentimenti che danno un senso all’esistenza. 

E’ per questo che una creatura come lei, fatta di pura poesia, in trasparenza, doveva essere per forza riscoperta e amata, prima che fosse troppo tardi; e oggi se ne rammemora il giorno in cui apparve, sfolgorante, sullo scenario letterario salentino, nel 1987, quando era una fanciulla stravagante e bellissima di diciannove anni, con una gonna lunga e nera fino alle caviglie, un cappello rosso, e quei versi tra cielo e inferno che lasciarono stupiti gli spettatori. Recitò una poesia che sembrava la partitura di una scena teatrale per spettatori non sprovveduti. “Assomiglia più a una prosa lirica che non ad una vera e propria lirica in versi”, disse Donato Valli. E subito ci fu chi le consigliò di darsi al teatro, perché – dice Sergio Rotino – era anche un’ottima lettrice, e le sue stesse poesie non rendevano sulla carta quanto come venivano lette da lei stessa. Come cultura e scrittura non era catalogabile, aveva un suo modo di rielaborare, una forza enorme, ma fuori dagli schemi.

La sua voce – scrive Desiati – sembrava provenire da chissà quali distanze, un canto distorto, quasi fosse il canto d’amore di una Furia. Potremmo parlare di modulazioni recitative improntate su categorie tonali-performative della separazione, del lutto, della distruzione.

Ma Claudia non aveva bisogno di far teatro, lei stessa era una figura teatrale vivente, anzi era una medium straordinaria, divina, in tutto ciò che faceva. Non era un fiore freudiano che fiorisce in una sola notte. Era una stele, un obelisco, una bellezza della natura e dell’arte che dura per sempre.

Era troppo sensibile – scrive Desiati – sensibile a tutto, anche alla vita, era fatta per la poesia, per fare della sua vita una poesia, una scelta netta che lei traduce in Lamento del Convitato con queste parole: “e quale mai s’invera Canzoniere da questo tanto intentato Io,/ se al grande giro di attorno, di nada, soltanto, mento, spio ?”.
Ma Claudia possedeva anche un garbo mondano, una grazia squisita e inafferrabile, era deliziosa, spiritosa, tagliente, amabile e crudele, piena di tatto e di violenza, voleva brillare, scintillare, essere leggera, venire amata e ammirata, aveva un senso acutissimo della forma, il dono della pura creazione, la perfezione suprema a cui poteva giungere. Avrebbe potuto far tutto, se l’avesse voluto: l’attrice, la show girl, la Mata Hari, la donna fatale, l’incantatrice di serpenti, la Sherazade.

Claudia Ruggeri, la sposa barocca che corteggiava la morte (II/III)

Claudia Ruggeri

Per capirlo, basta guardare quel suo profilo, bellissimo, col nasino perfetto di una ninfa appena sbocciata nei boschi di Pan, con quelle mani sulla testa piena di ricci neri, quella posa di gabbiano in riposo, e quegli occhi distesi in un orizzonte infinito, o in una preghiera infinita, o in un pensiero infinito, e quel nasino diritto, piccolo, con due nari deliziose, angiporto di tutti i destini incrociati, e le labbra profumate, carnose, da piccola dea che scende per un attimo sulla terra per mostrarsi nella sua luminosità abbagliante, con i guanti bianchi, a rete, come una diva d’antan, o le ragnatele di Aracne che tesse, tesse con le sue mani lunghe e affusolate, la maglietta nera, come il mistero, l’intrigo, la tenebra, il velluto che corre e si dipana nei suoi occhi d’incantesimi…

Come se avesse un male/ a disperdersi/ a volte torna/ a tratti ridiscende a mostra/ dalla caverna risorge/ dal settentrione/ e scaccia per la capienza d’ogni nome/ che sempre più semplice/ si segna/ ai teatri/ che tace/ per rima/ certe parole

5. Aveva dentro di sé un’impazienza tragica, come quella di una condannata a vivere, e tuttavia era capace di rendere lieve e luminosa ogni cosa che faceva. Aveva una tristezza fonda e inspiegabile, che a tratti le si poteva leggere sulle labbra e negli occhi, e tuttavia ciò non la incupiva mai, anzi la rendeva inesprimibilmente chiara, netta, linda come il sole a mezzogiorno. Aveva scoppi di un’allegria nervosa, isterica, eppure ciò la rendeva morbida e affascinante come un crepuscolo mattinale:

amo la festa che porti lontano/ amo la tua continua consegna mondana/ amo l’eden perduto/ la tua destinazione umana/ amo le tue/ cadute/ benché siano finte/ passeggere.

La poesia di Claudia Ruggeri – scrive Desiati – è dotata di irruenza tanto da scardinare la continuità metrica. Questo però è vero fino a un certo punto. Spesso si trovano all’interno dell’ Inferno Minore metri classici assolutamente non causali: dentro in limine troviamo i martelliani: “prima che il subbuglio ammorza e che asciuga la guazza…” mentre in lamento dell’Amante addirittura degli endecasillabi: “la sua sparizione non ebbe l’ordine/ degli organi; l’anello che cattura..

Endecasillabi, o versi martelliani, che siano, non so quanto casuali, un fatto è certo: Claudia cercava di dire tutto, di possedere tutto, credeva di poter scomparire, di rendersi invisibile, come l’aria, o un tratto di matita che si cancella, e diceva agli amici che la incontravano spesso ubriaca per le strade di Lecce:

Riconoscete la mia chiara nascita di poeta, io sono refrattaria, assente, i limiti che un tempo mi salvavano, sono ormai superati. Io sono ad un tempo una cosa, un pensiero, un’immagine che mi permette di manifestare tutta la coscienza del creato, tutto ciò che sfugge, che è misterioso, che ci strappa a noi stessi, che ci perde…

Io cerco quel che non ho mai cercato, ciò che non può essere cercato, Io sono il vuoto abortito, la ricerca scavata, l’ invisibile in un universo di vetro. La mia immagine è antica, così antica, che ha l’età della mia memoria, di mio padre, di mio nonno e di tutti i miei avi che hanno sparso le loro ombre…

la memoria finta da usare / come un nome, questa memoria insomma divina / indifferente di un calcio e di ossa, di un debole / dèmone mosso a pena a cerchio (leggero leggero / lo spirito ragazzino, e ciò sottile sottile / indistinto, destinato

Era un prodigio bianco e rosa, barocco e rococò, una malinconica soggetta a euforie e depressioni egualmente violente, con un’immaginazione ardente che gli faceva condividere tutte le passioni e le sensazioni, finchè non risuonò la nota vera che si nasconde nel vivere falso, tra le parole che deformano il desiderio, la fiamma mobile e atroce dei sentimenti, la sempre rinnova forza di sogno, l’infinito di passioni concentrato in ogni minuto dell’esistenza, come negli sguardi di Claudia che sconvolsero tutti, perché là dietro, lontana, sepolta quasi inavvertibile, s’annidava la musica del cuore, come l’ultima eco di una sinfonia d’amore che si allontana, quel cuore simile ad un’immensa tastiera, che non riesce a suonare.

6. Ma l’avete vista bene, questa lamentatrice da inferno minore, questo uccello notturno, questa poeta maledetta salentina che canta i suoi versi non con l’arpa o la cetra, ma con la virile spada, e il fragile cristallo dei vetri infranti:

cavami da le piume gli insulti lo sfrenìo / la velocità indifferenziata che era danza / o salto, che ormai non muove semplicemente / mi rende probabile

L’avete vista mentre scioglie il suo canto, con quei versi pazzi, che stridono sulle rotaie di un treno facendo scintille, versi farfalle colorate, senza misura e senza schemi, senza vere ali, versi che non sanno volare, né rimanere in terra, versi dannatamente barocchi, seppur nuovi, diversi, folgoranti, improbabili, che ti arrivano come una dissonanza di schonberghiana memoria, o lo smembramento di un pensiero, o un frammento di vicenda fantasmica, e che tuttavia ti affascinano, t’ammaliano, s’inarcano come un cavallo imbizzarrito, o una chitarra di vento curvo che t’imprigiona nella sua spirale di sensi? L’avete vista quando alza le braccia come ali bianche di un gabbiano in riposo, e si mette poi le mani sul capo per un posa verso l’eterno? L’avete vista questa dea splendida e nera che consuma ogni giorno il mondo con la sua presenza, come se fosse l’ultimo giorno. Avete visto le sue lacrime versate per le strade di Alessano, dove rincorreva l’ombra di don Tonino Bello, il magnifico guerriero della pace?, l’avete vista, la “nostra” Claudia mentre sale già una scala, su su, verso il cielo?

Claudia è qui, tra noi, e domani è ancora il suo avvenire. Si è solo sparsa un po’ come fanno le stelle nel cosmo, o la sabbia nel mare, o i raggi di un sole bellissimo e nero. Nero come il suo colore preferito e il perire delle cose, il loro precipitare nella precarietà, e nel nulla. Ma lei, ripeto, sta qui tra noi, invisibile, in attesa, sul ciglio della strada, a Lecce, nascosta sugli alberi dove “Ci sono foglie / Così stanche di essere foglie /Che sono cadute”.

Granelli di polvere, qualche fiore disseccato nei vasi, e poi il vuoto, il vuoto. Buco nero. Dicono gli ultimi testimoni che era una ragazza perennemente pallida, dai capelli scuri, dagli strani occhi radiosi, che emanavano uno sguardo di misteriosa freddezza. Amava la ragione geometrica, era affascinata dalle tenebre, dai misteri e dai trucchi che si oppongono alla ragione, giocava con queste tenebre e questi misteri, con gli orditi segreti della sua mente. Era pallidissima, la voce estremamente debole, quasi un sussurro. Aveva compreso che davanti a lei non c’erano più libri da scrivere e da leggere.

Tutta la sua vita era stata dominata dalla passione della poesia, una forza tremenda che diventa un destino contro il quale non è possibile porre rimedio alcuno. Aveva sempre una profondissima insoddisfazione di sé, di come era lei e della sua poesia pazza fatta – scrive Stefano Donno – di “scheletri, frammenti, embrioni di altre poetiche nelle quali si aggirava inquieta e irrisolta la sua voce in un abuso ubriacante di arcaismi, di poeticismi, di imperfetti metricismi…poesia ardua, nella lingua e nelle figure, ambiziosa, quando non pretenziosa, impelagata nelle inattuali evocazioni del Mito, ma per questo singolare e degna di recupero”.

Era insoddisfatta del mondo che la circondava, e aveva un istinto di autodistruzione tragico, un desiderio di fuga, da tutto e tutti, soprattutto da se stessa.

continua>>

 


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Magazines