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Claudia Ruggeri, la sposa barocca che corteggiava la morte (III/III)

Creato il 02 settembre 2010 da Cultura Salentina

di Augusto Benemeglio

7.  Lo stesso Donno dice che poteva essere salvata, dice che a Lecce c’è gente che poteva salvarla, sostiene che ci sono persone che hanno avuto grosse responsabilità circa la sua morte, ma che non l’ammetteranno mai.

Ma non è così. Claudia era candida, stupita, orgogliosa, eroica, piena di un’immaginazione ardente e romanzesca, aveva tutto per amare la vita, invece amava l’abisso, era come una cieca errante, una pellegrina abbandonata sulle rive di un desolato naufragio (Il naufragio era la sua vita). Aveva l’anima pura di una colomba angelica, era una creatura celestiale, che si era incarnata sulla terra, ma non sapeva viverci. Era inadatta a vivere fra di noi. E lo dice lei stessa: La mia caduta è un esilio in altri cieli, in altre vite: “Dedico a Te questa morte / padula – ché sei l’Arteficiere -; impiegane / la festa, se pure alza l’Avverso, lo cattura”.

Chi è puro muore giovane. La morte giovane è segno di elezione spirituale. E’ così che vogliono gli dei. Ed è così, Claudia, che tu sopravvivi all’eterno, al di là di un’altra Maria Corti che venga a scoprirti come altro poeta maudit salentino, con quel volo folle, quel gesto definitivo, irrevocabile, già scritto nel libro del tuo destino, quel volo senza ultima parola dell’Angelo di Dio, senza suoni. Ma solo silenzio. Il silenzio che ascolta il silenzio. E’ l’una è trenta di notte, il giorno 29 novembre 1993 e ti lanci nel vuoto dal balcone di casa tua:

e volli / il folle volo cieca sicura tutta / Volli la fine delle streghe volli // Il chiarore di chi ha gettato gli arnesi / Di memoria di chi sfilò il suo manto / poggiò per sempre il Libro

E’ qui quel tuo Libro poggiato per sempre, è un libro di un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine, un tempo perduto che solo l’arte riesce, talvolta, a ritrovare.

Sei tu, Claudia, che talora mi chiami non so da dove, e mi dici: “ricordati che dopo la morte ci sarò. Sono così sicura che ci sarò, dillo a mia madre, ai miei amici. Potrete leggermi nei vostri occhi, nei vostri pensieri, nel vostro cuore, perché il mio nome non muore, il mio nome di sposa barocca salentina, il mio nome è per sempre nel libro, e la morte è l’apoteosi di quel nome. Tu sai che la parte femminile dell’uomo è il sonno, e cos’è la morte se non un sonno più lungo, diverso? Ogni dimora è il luogo prediletto del riposo, lo spazio è compagno del sole, il sogno delle nuvole. La mia preghiera è quella del granello di polvere alla montagna, della goccia d’acqua all’Oceano, del soffio di fuoco al sole. Io sono l’onda che si rinnova e la schiuma, il sale, l’aurora e il crepuscolo. Ricorda tutto ciò”.

Ma al centro di ogni meditazione c’è il mare, con le sue minacce e le sue manette, il mare che ti conduce nelle sue prigioni nelle notti d’estate, il mare di tutte le avventure, di tutti i destini.

Claudia Ruggeri, la sposa barocca che corteggiava la morte (III/III)

Claudia Ruggeri

8. E’ un sabato pomeriggio, Claudia venne a Gallipoli e vide il mare, il mare pioveva dolcemente dalla serra di Nardò, poi lo vide come pozza ai piedi del Rivellino, e dietro la torre del castello angioino dove Albertazzi aveva fatto Jacopo da Lentini nello spettacolo di Federico II litigando con gli spettatori che lo spernacchiavano dalla piazza delle barche dei pescatori,

Amore è uno desi[o] che ven da’ core/per abondanza di gran piacimento; /e li occhi in prima genera[n] l’amore/e lo core li dà nutricamento.

rivide quel mare con le barche colorate, quel mare di cartolina, spaziò con quel suo sguardo che sapeva andare lontano, lontano, oltre Santa maria al Bagno, Santa caterina, Porto cesareo.

E disse, Questo è il mio mare. Ma lo disse a se stessa. Non avvertì nessuno. Si distese sulla spiaggia e ascoltò scorrere la quieta nenia dell’onda di risacca che sciacqua e risciacqua l’anima come fosse un pezza calda. Il mare le era d’accanto, con i tempi e i ritmi delle onde, della Balena Bianca, del Pequod e del capitano Achab, e l’anima bianca di strani fantasmi, il tempo oceanico, il battito dei remi e lo schiocco delle vele, le nuotate interminabili, l’inverno che stringe le onde nei lacci del ghiaccio.

Visse i suoi giorni in una conchiglia. Chiudeva gli occhi come se fosse cieca e respirava insieme ai pesci, alle alghe, ai gabbiani di Sant’Andrea, a sera si illuminava di luna di stella e di maree “Trovarsi nel vuoto/ aspettare le maree/ interrompere il fiume di pensieri”.

S’era fatta blu azzurra pensosa profonda mistica, sapete quei quei blu mentalis di cui Kandiskij andava pazzo, e aveva un essere vivo dentro il cuore della morte, un essere in piedi, diritto, verticale, ma invisibile, dove l’aria e l’acqua passavano e ripassavano con un ritmo disteso, sereno, ma ineluttabile. Quando riaprì gli occhi, non aveva altri sguardi ormai che per l’infinito, ma un infinito minore.


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