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Claudio Damiani su Rosa Salvia

Da Narcyso

ROSA SALVIA, MI STA A CUORE LA TRASPARENZA DELL’ARIA

di Claudio Damiani

Mi sta a cuore la trasparenza dell’aria.
E’ dolce raccoglierla come la porzione
estrema di un destino comune
quando il mare gonfia lento,
si pavoneggiano le vele
e il giorno si fa più leggero.


Claudio Damiani su Rosa Salvia
E’ l’inizio della raccolta di poesia Mi sta a cuore la trasparenza dell’aria di Rosa Salvia, pubblicata dalla Vita Felice nel giugno 2012. Quella di rosa è una parola chiara e precisa, che ha bisogno di trasparenza dell’aria affinché gli oggetti siano appunto chiari e precisi, e le parole che li dicono anche siano qualcosa di rotondo e luminoso:

La parola è un’argentea coppa:
intatti, precisi gli attimi
si posano -
è un movimento d’acqua cui è stata
data forma,
un diagramma,
un disegno d’aria sottile

è come una coppa invisibile la parola, per Rosa, e c’è solo il contenuto, acqua che scorre imprendibile, il contenente non c’è, è un diagramma matematico di punti, “un disegno d’aria sottile”. Come se nell’aria fosse la forma, la lingua, e quest’aria, invisibile, trasparente, potesse raccogliere, come una coppa, il tempo che scorre.
Ma la visione nitida non preclude la visionarietà, che a Rosa non manca:

e vedo la morte per un istante
che chiama a nuova vita
come una campana che suona a distesa
sul frutteto sotterraneo

Momenti visionari, cosmici, e poi il nitore, la lucentezza musicale della parola, che fa pensare ai greci. La coppa argentea, la coppa della vittoria. E anche, dei greci, l’antico pensiero della Phisis, gli elementi primordiali (abbiamo già visto l’aria e l’acqua). Dice bene Gabriela Fantato nella premessa quando parla di richiami alla tradizione alchemica ed essoterica, e a una “concezione sacrale della vita”.
Se l’amore è importante, Rosa aspira a un amore più grande, un’unità, una società tra gli umani:

Solo per me?
No, anche per lui.
Solo per noi due?
No, anche per gli altri.
Ci struggeremo, vivi con i vivi.

Questa società, questa solidarietà che ci manca, possiamo impararla dalla natura, come nella poesia La marcia dei pinguini (che si ispira forse a un famoso documentario di qualche anno fa). E tornano i miti greci, esempi insuperati, “naturali”, anch’essi, per una nuova, invocata, pacifica convivenza:

Nella vostra marcia,
o pinguini,
fateci da guida,
siateci vicini:
insegnateci a essere,
come voi,
uniti
infaticabili
nonostante la mota
e il cielo grigio,

fieri come Priamo
assassinato insieme
alla sua gente,

fedeli come Antigone
al sangue del fratello nostro,
vivo nel suolo

col cuore ancora giovane

e la pazienza
timida conchiglia
che accoglie il tramestio del mare
come una carezza.

Miti non solo greci, anche mesopotamici, come quello della dea-madre Ti’amat, tagliata in due dal dio maschile Marduk, posto a premessa del più antico codice scritto della storia, il codice di Hammurabi:

il mito di una maternità che si colloca fuori
da ogni dimensione spazio-temporale,
il mito della dea-madre: Ti’amat.

Il mito di un mondo paritetico,
senza dominio, privo di violenza

E poi, nella parte finale, figure del dolore antiche e nuove. Antiche come questa Isabella di Morra, poetessa lucana del Rinascimento, che diventa, in questa poesia finissima, una barca:

Là dall’onda arrabbiata i pescatori tornano a riva
con le loro vele gonfie di vento
i volti arsi dal sole.
Tirano in secca una barca che si chiama
Isabella,
la corda bagnata scorre fra le loro dita e cade
sulla sabbia lambita dalla schiuma
formando misteriosi disegni che fissano lontano
come lo sguardo di Isabella simile
all’aria senza respiro accesa dalle stelle
che il mare mescola alla matassa della sua penombra.

E nuove, come Elisa Claps, ragazza barbaramente uccisa a soli 16 anni a Potenza il 12 settembre 1993 nella chiesa della Santissima Trinità e ritrovata ufficialmente il 17 marzo 2010 nel sottotetto della chiesa:

Nel vento di Primavera
nel Tempio della Santissima Trinità
là dov’è sepolto il Sole
là dov’è sepolto il Dono,
ai poveri resti di Elisa
è concesso il perenne tornare
l’umile inconoscibile
trasmutato tornare.

Paradossale deserto d’un cimitero di città
tra ali di rondine e veli d’omertà,
occhi bugiardi,
segni sinistri cui s’intreccia ed attorce,
come al labirinto della Croce,
quel che resta d’un corpo straziato
tanto tempo fa,
che ancora tristemente parla,
che ancora tristemente cerca
una chiave, una luce,
lungo il fetido, fondo, umido abisso

finché s’avvivi l’anima e s’acquieti.


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