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A Gaza vive una ragazza che fino a due anni fa se ne andava in giro in sella a una moto. Vestita da uomo. Lunghe scorrazzate meccaniche in sella a un bolide d'acciaio lungo la Striscia. L'avessero scoperta lo avrebbero detto a: 1. i suoi genitori; 2. i suoi vicini; 3. tutti gli abitanti della Striscia. Le conseguenze sarebbero state: 1. arrabbiatura cosmica dei suoi; 2. sgomento dei vicini; 3. ammirazione della gente, in particolare della popolazione femminile (la maggioranza nella Striscia). Questa ragazza ha smesso di andare in moto. E di travestirsi da uomo. Troppo rischioso: non a causa di Hamas (che riuscirebbe ancora a beffare), ma dei salafiti, aderenti a una dottrina dell'Islam intollerante e oscurantista, trapiantata a Gaza da chi aveva interesse a farlo. Un po' come da noi, anni fa, qualcuno ha pensato coltivare kiwi. Non sono arrivati da soli, per capirci. Bene. La ragazza, abbandonata la moto, ha deciso di continuare il suo lavoro (fa la fotografa) senza ricorrere a mentite spoglie. Porta avanti così la sua rivoluzione. Ho ancora nelle orecchie il rombo della motocicletta.
Oggi, a Gaza, sono cambiate parecchie cose. Ad esempio: alcuni amici che salutavano con un “marhaba” (salve, buongiorno) preferiscono, soprattutto negli uffici dei ministeri e dell'amministrazione pubblica, un piu' consono “as-salamu alaykum” (la pace sia sopra di te), un saluto decisamente e opportunamente connotato religiosamente nella Striscia gestita da Hamas. Svanito il rombo della ragazza centauro, ascoltando bene ho percepito nell'aria un suono timido, ma insistente. Click. Un suono assolutamente nuovo. Mi ha incuriosito al punto da spingermi a seguirlo.
Click. L'ho avvertito, nettamente, mentre stavo scattando una serie di fotografie nell'ospedale psichiatrico di Gaza. Una istituzione dentro la quale mi ero messo alle calcagna della follia, quella innata (se esiste) e quella indotta dalla guerra, generatrice di mostri e di incubi che non distinguono fra il giorno e la notte. Click. Esco dalla sezione dei matti tenuti come prigionieri dentro celle simili a spoglie stanze della tortura, matti ricoperti di tonnellate di ovatta prodotta dagli psicofarmaci, percorro un lungo corridoio che sa di urina e feci, mi allontano verso la zona dei matti meno matti, dei bambini e degli adolescenti che soffrono di turbe del comportamento, di autismo, di depressione e di molto altro ancora: hanno visto parenti morire, bombe esplodere, fosforo bianco bruciare tutto. Giungo nella stanza della terapia di gruppo. Click. Ecco l'origine di questo scatto metallico. Scopro che si tratta di un piccolo contatore simile a quello con cui sugli aerei il personale di bordo verifica che il numero di passeggeri corrisponda alil numero di biglietti emessi. Scopro, per farla breve, che si tratta in realtà di un conta-preghiere, un'invenzione recente. Se lo tiene al dito una giovane assistente sociale che mi guarda divertita, consapevole del motivo della mia curiosità. Click. Click. E click. Questo racconto è dedicato al piccolo aggeggio elettronico che, a mio modo di vedere la realtà nella Striscia, non è molto diverso, nella sfida simbolizzata, dalla motocicletta della ragazza fotografa.
Chiedo alla giovane assistente sociale se, di sera, terminata la giornata, invia le sue preghiere a Dio. Voglio dire, il numero di preghiere recitate. E se per farlo utilizza internet. Scoppia a ridere. “No, non è fatto per questo! Quella fra me e Dio è una relazione spirituale”. Click. Rania porta al dito l'anello tecnologico. Un elegante contatore con display digitale azionato da un pulsante lucido colore acciaio. Click. A Gaza sono i primi in circolazione. Rania e la sua amica e collega Samira sono anticipatrici di una tendenza: scommettono che presto di questi anelli ne gireranno molti. E che altre donne li porteranno. L'anello ha sostituito la subha, il rosario islamico. Una collanina, diffusissima, che sono soprattutto gli uomini a tenere in mano, a passarsi fra le dita. Le donne la tengono nella borsetta. Composta di 33 grani di vetro, plastica o legno, la subha è utilizzata per la preghiera del dhikr, il ricordo incessante di Dio, la ripetizione del suo nome, ogni giorno e in ogni istante del giorno, secondo tre formule: “Gloria a Dio”, “Dio è grande”, “Sia lodato Dio”. Con questo nuovissimo contatore fai un click per ogni lode pronunciata. Click, click, click. Sul display di Rania la somma raggiunta è di 460 e sono soltanto le undici di mattina. “Se oggi arrivi, poniamo, a 100, domani, azzerato il contatore, cercherai di migliorarti e così via”.
Rania, che ha 23 anni, e Samira, che ne ha 38, lavorano come assistenti sociali all'Ospedale psichiatrico di Gaza, si occupano soprattutto di bambini affetti da patologie mentali, causate dalla guerra, dalla violenza che regolarmente si abbatte su Gaza e che a Gaza quotidianamente si consuma. Un loro collega maschio ha portato con sé cinque contatori da un recente pellegrinaggio alla Mecca; il padre di Samira ne ha portati due. Tecnologia saudita al servizio della religione, del rapporto fra l'individuo e il divino. Da un paese che impedisce alle donne di guidare la macchina, di uscire sole, di mostrarsi pubblicamente se non avvolte in metri di stoffa nera, non ti aspetteresti la commercializzazione di un vezzo, di un gadget femminile. A colpire sono i colori: giallo, blu, azzurro, rosso. Questi contatori sono pensati per le donne, per consentire azzeccati accostamenti con l'hijab, il foulard che molto spesso costituisce l'unica nota di fantasia nell'abbigliamento femminile tradizionale, oppure con il nero calato addosso a donne guantate.
Samira non è d'accordo con la mia definizione di accessorio alla moda: “quando uso il contatore mi sento in relazione diretta con Dio, mi ricordo di Dio e chiedo perdono per i peccati”. Mi chiedo di quali peccati potrà mai macchiarsi una donna a Gaza. “Dio mi ricompenserà”, continua Samira. “Il suo regalo può arrivare durante o dopo la vita terrena.” Basta però guardare come lo tiene al dito, come lancia rapide occhiate al contatore, per capire che a Samira il rosario elettronico piace e che è soddisfatta dell'accostamento cromatico con il quale è uscita di casa questa mattina. “Lo metto sempre su un dito della mano sinistra – spiega Samira – rispetto al rosario è più semplice da usare, non ti tiene le mani occupate. Ti ricorda anche di lodare Dio, basta un semplice click ogni volta che lo hai pensato, che hai pronunciato il suo nome.” Click. “Il contatore elettronico è accettato anche sul lavoro – continua Samira - è meno visibile della subbah tradizionale, del rosario, lo scambiano per un accessorio, un orologio, un anello”. Click. “E' un rosario per i giovani, per la nostra generazione”, racconta ancora Rania. I maschi, i colleghi di Rania e Samira, osservano incuriositi dal colore del contatore e distratti dalla grazia con la quale le due donne lo hanno trasformato in una parte naturale delle loro mani. Che strano. Click. Curioso. Click. Un oggetto autorizzato dalla Mecca e dai massimi rappresentanti religiosi sauditi, custodi di una visione conservatrice (eufemismo) dell'Islam, produce un'attenzione estetica, un indugio di occhi maschili timidamente dissimulato. Un'attenzione che fonde curiosità e ammirazione. La constatazione di un abbinamento riuscito fra un contatore azzurro e un hijab dello stesso colore rivaluta il piacere della contemplazione terrena riservata a una donna, certo non a tutto il suo corpo (in questo caso il corpo non entra in questione), ma a una parte del suo corpo, questo certamente. Non ci sarebbe nulla di nuovo se non si trattasse della forma moderna di uno strumento che, per quanto meccanicamente, svolge il suo ruolo nella connessione spirituale fra l'individuo e Dio. Insomma, se non si trattasse di un rosario islamico elettronico. Unghie perfettamente curate che sbucano da abiti lunghi pensati per nascondere il corpo delle donne, volti splendidamente truccati incorniciati dal velo che nasconde i capelli, occhi vellutati dal rimmel quando il velo lascia scoperti soltanto quelli, scarpe alte scelte con cura che sbucano da svolazzanti vesti che arrivano alle caviglie (e oltre) costituiscono da tempo il modo con cui alcune donne (le piu' coraggiose) rivendicano (addirittura esasperandola nel particolare) la propria femminilità come elemento identitario, non esclusivo ma integrante della loro esistenza. Nuovo invece è il gioco, sottile, tutto levantino, che si innesca fra il significato religioso del contatore e la sua valenza estetica. La duplicità che si insinua nella funzione originariamente pensata. Il contatore, messo al dito di una donna che da come è vestita corrisponde appieno all'immagine che la società da lei si aspetta (e perché no, anche alle sue individuali convinzioni), si trasforma in anello colorato e come tale, rivendicando la sua funzione estetica, relativizza l'esclusività del significato religioso. Relativizza, non cancella. Il contatore è un rosario per le preghiere, ma è anche bello e, anzi, diventa bello quando indossato da una mano femminile. Nessuna valenza esclude l'altra. Ciascuna, invece, rivela l'esistenza dell'altra in sé. Del bello, del piacere (estetico) nel religioso, del religioso nel bello. Quanto ne sono consapevoli Rania e Samira? Del tutto, credo, nemmeno loro. Non potrebbero, non sarebbe accettato. E anzi non lo accetterebbero nemmeno loro. Samira ci tiene a spiegarmi che “la religione è la vita” e che lei vive “per esprimere la religione e per trasmettere agli altri i principi che questa religione” le ha insegnato. La stessa Samira aggiunge che usa il contatore – click – “quando è preoccupata o nervosa o per chiedere a Dio che le mandi un po' di denaro.” La preghiera, totalizzata nel computo elettronico quotidiano, cosi' simile alle preghiere di chi, a migliaia di chilometri da Gaza e dall'Islam, in sostanza chiede al divino le stesse cose. La sfida, costituita dall'anello-rosario, sta tutta nella suo valore estetico e, direi, mondano. Al dito di ragazze che comunque vestono in modo conforme ai canoni religioso-culturali di una società conservatrice, il contatore elettronico condensa il significato di una rivendicazione: l'espressione della propria femminilità affidata a un oggetto “religioso” non costituisce peccato. Così come non lo costituivano i chilometri macinati a cento all’ora dalla ragazza vestita da uomo in sella a una moto. Anche quelle corse a perdifiato erano, in fondo, una preghiera: lo erano nella richiesta di proteggerla da schianti e incidenti, affidata a un divino la cui dimensione non ho mai chiesto alla ragazza di specificare, ma comunque invocato. Sono convinto che si tratti di un segnale importante. Da registrare e da tenere presente. La rivoluzione – quella che porterà la vera democrazia nelle società arabe – passa (deve passare) attraverso le donne.
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