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Cloud Atlas: l'atlante delle nuvole sbarca al cinema

Creato il 04 gennaio 2013 da Pianosequenza

Cloud Atlas: l'atlante delle nuvole sbarca al cinema

Cloud Atlas
(Cloud Atlas)
Tom Tyker, Andy e Lana Wachowsky, 2012 (USA, Germania, Singapore, Hong Kong), 172’
uscita italiana: 10 gennaio 2013
voto su C.C. Cloud Atlas: l'atlante delle nuvole sbarca al cinema
Our lives are not our own.
From womb to tomb,
we are bound to others.
Past and present.
And by each crime
and every kindness
rebirth our future. Sonmi-451, Nuova Seoul, 2144
1849, Oceano Pacifico. L’avvocato Adam Ewing (Jim Sturgess) lotta contro una malattia esotica a bordo di un veliero in viaggio verso le Americhe. Autua (David Gyasi), schiavo che viaggia da clandestino, lo salverà dalle grinfie di un avido medico (Tom Hanks).
1936, Cambridge ed Edimburgo.  Robert Frobischer (Ben Whishaw) tenta di comporre il suo capolavoro, lavorando come amanuense per un genio della musica caduto in disgrazia (Jim Broadbent). La sua complessa vita privata sarà d’intralcio.
1973, San Francisco. Luisa Rey (Halle Berry) ha di fronte lo scoop della vita. Lo insegue, a costo della sua incolumità.
2012, Londra. Timothy Cavendish (Broadbent), editore dalla discutibile fama, viene rinchiuso dal fratello (Hugh Grant) in un ospizio. La sua fuga diverrà memorabile.
2144, Nuova Seoul. In un mondo nel quale il libero arbitrio non esiste più, Sonmi-451 (Doona Bae) è scelta come guida e simbolo di una rivoluzione. Pronta al sacrificio per la causa, impianterà il seme del dubbio in un impassibile burocrate del tempo, l’Archivista (James D’Arcy).
106 inverni dopo La Caduta. Zachry (Hanks), novello uomo delle caverne, è tormentato dagli errori-orrori del suo passato, che si manifestano con le sembianze del mefistofelico Old Georgie (Hugo Weaving). Avrà modo di redimersi. Chi pensa che Cloud Atlas sia un film dal “concept” innovativo dovrebbe tornare indietro agli albori del cinema ed in particolare ad un kolossal girato quasi un secolo fa. Era infatti il 1916, in piena Silent Era, quando D.W. Griffith spopolava ad Hollywood con il suo Intolerance: Love’s struggle throughout the Ages, una pellicola di tre ore e mezzo nella quale si intercalavano quattro storie da quattro epoche diverse unite da un comun denominatore, l’intolleranza. Il messaggio era chiaro: dove e quando non contano, perché gli uomini sono destinati a comportarsi sempre nel medesimo modo, commettendo gli stessi errori. È trascorso un secolo (dal punto di vista tecnologico un millennio) ma gli autori di Cloud Atlas sembrano essere dello stesso avviso. I “Watchowskis” (Andy e Lana, fu Larry, Wachowsky) già profeti del Matrix conducono insieme a Tom Tykwer (Lola Corre) una imponente macchina da guerra, oliata dal budget record (per un film indipendente) di cento milioni di dollari. La loro collaborazione nell'adattamento del racconto-cult di David Mitchell è fondata su una divisione del lavoro ben precisa: mentre a Tykwer vengono lasciati i segmenti di ambientazione Novecentesca e quello del presente, ai Wachowsky è affidato l’Ottocento e, soprattutto, il super-futuro.
La separazione in due team, totalmente indipendenti l’uno dall’altro, ha così consentito di dar vita a sei mini-film ognuno dei quali caratterizzato da una ben determinata cifra stilistica ed in grado di esaltare il gusto dei singoli autori – Tykwer dà il suo meglio nell’episodio del 1936, unico dell’intera pellicola ad apparire capace di “vita propria”, i Wachowsky sono a loro agio nell’ambientazione orwelliana della Nuova Seoul, dove possono declinare una storia di eroismo e ribellione che ha radici comuni col progenitore Matrix. L’eroico addetto al montaggio Alexander Berner ed un valido trio di compositori (Reinhold Heil, Johnny Klimek oltre allo stesso Tykwer) intervengono per scongiurare che questa forzata frammentazione divenga un intralcio alla fluidità narrativa del film, perché in grado di legare magicamente con immagini e musica sequenze che spesso lasciano solo pochi secondi per ambientarsi in un nuovo scenario, prima che questo muti nuovamente. Ciò che non convince è il continuo, ridondante, tentativo di indicare allo spettatore una precisa chiave di lettura per la storia: al contrario di quanto si potrebbe immaginare di fronte ad un’opera di tale portata, si rivelano infatti ben poche le libertà concesse alla curiosità di chi guarda. Il messaggio che l'umanità è parte di un ciclo infinito, nel quale tutti sono connessi e le azioni di ciascuno (positive o negative che siano) hanno conseguenze sugli altri, viene ribadito e trova conferme costantemente. Allo spettatore restano da mettere insieme solo dettagli marginali che sicuramente interesseranno una nutrita tribù di aficionados, come la ricerca del sottile filo che lega ogni storia alla precedente o lo sforzo per riconoscere il vostro attore-feticcio in una girandola di interpretazioni, nella quale tredici stakanovisti sono impiegati in sessantuno (!) ruoli diversi. Durante buona parte del tempo vi sorprenderete a tentare di riconoscere un volto già conosciuto, ma celato sotto una quantità di trucco in grado di modificarne persino etnia o genere. Il lavoro dei make-up artist deve essere stato estenuante, e sebbene ripagato con qualche vera a propria opera d’arte (Hugh Grant e la tribù dei Kona nel futuro post-apocalittico) spesso risulta motivo di distrazione e disturbo più che d’interesse.
Volendoci imbarcare in cervellotiche dissertazioni potremmo notare come alcuni attori, ed i loro personaggi, rappresentino in qualche modo degli archetipi comuni ad ogni piano narrativo (Grant e Weaving perennemente intrappolati nel ruolo dell’antagonista, Sturgess e D’Arcy ai loro antipodi, eroi disposti al sacrificio) o ancora, soffermarci sull’accentuato simbolismo di alcune scene (l’avido Hanks dell’Ottocento, prima d’essere colpito a morte con la cassetta piena d’oro che tanto bramava, ruba una pietra preziosa che il pavido Hanks neanderthaliano indossa come ciondolo; nell’epilogo è proprio la rottura di questa collana, e dunque la rinuncia a quell’ossessione per il “possesso” che indirettamente gli era stata tramandata, a salvargli la vita) ma si tratterebbe di dare eccessivo significato a scelte di casting definite da motivazioni probabilmente ben più pragmatiche. Al volenteroso spettatore di Cloud Atlas possiamo assicurare che, comunque, faticherà ad annoiarsi: saltando da un genere all’altro, da un posto all’altro, da un tempo all’altro riuscirà a trovare spunti appassionanti; ciò che invece non potrà provare sarà quell’ambiguità e quel mistero che avevano caratterizzato, ad esempio, lo scaltro finale di Inception. Cloud Atlas è un film forse più onesto, e certamente ben meno complesso di quanto vorrebbe apparire, perché imprigionato in una impalcatura filosofica alla quale essere, incessantemente, fedele. Un proposito che, di questi tempi, potremmo definire persino nobile.
Conservatore in incognito.

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