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Dei Nirvana non ho mai ascoltato un intero CD.
E sì, lo so bene che avendone fatti solo 3 dovrei vergognarmene, e so bene che conoscere piuttosto bene i loro singoli e provare i brividi di fronte all'unplugged di MTV non mi rendono una persona completa.
E' che nell'età dell'adolescenza, quella in cui la loro rabbia, le loro grida di incomprensione attecchiscono meglio, io avevo altro nelle cuffie, canzoni sempre ribelli, sempre gridate, ma altre.
Il mito di Kurt Cobain non mi si è quindi presentato sotto quell'aurea di santo tormentato come chi riempiva le cartelle di disegni, i diari di frasi o i guardaroba con felpe e t-shirt dagli smile non così felici, ma per me era un giovane, morto troppo presto, schiantatosi ancora in volo, di cui conoscevo davvero poco.
Con molti anni di ritardo, con quei singoli che ancora oggi esaltano e fanno alzare il volume della radio, ho voluto e dovuto supplire a queste mie mancanze, grazie anche alla HBO che ha prodotto un documentario, forse il più completo (almeno dal punto di vista umano) su un uomo, anzi, un ragazzo chiamato Kurt, e sulla sua vita.
La completezza di questo documentario sta nell'uso autorizzato dalla famiglia di video personali, di scritti e scarabocchi, di audio, di disegni. Famiglia che produce anche questo documentario, con quella figlia che il padre mai l'ha conosciuto davvero, quella Frances Bean, che compie il gesto più significativo, senza dubbio.
La storia di Kurt non può che partire dall'inizio, con un'infanzia non del tutto felice, dove ai giochi, alle feste assieme a padre, madre e sorella, subentrano ben presto i primi problemi, con pillole dategli per calmare la sua iperattività, con il divorzio che incombe, e che lo segna.
Sballottato qua e là da genitori che non lo sanno capire, da nonni che non lo sanno sostenere, Kurt non vivrà certo gli anni migliori della sua vita, trovando rifugio e trovando pace solo nella marijuana, che calma i suoi nervi, che calma i suoi problemi perenni allo stomaco.
Si passa così a un'adolescenza in cui il suo genio come la sua pigrizia hanno il loro acume, l'amore con Tracy che nasce, si incendia e svanisce, i primi tape, le prime schitarrate e le prime composizioni: la nascita dei Nirvana.
Partono allo sbando, e il documentario non si preoccupa troppo di parlarci della loro vera e propria nascita, di come Kurt abbia conosciuto e abbia iniziato a provare con Dave Grohl e Krist Novoselic, ma mostra invece quel tour che li portò dall'anonimato all'essere la nuova stella splendente del rock americano, catapultati in un mondo troppo grande, forse, dove vendersi è d'obbligo. Richieste di slogan da scandire, interviste via via più pesanti da sostenere, con quelle domande a cui Kurt non interessa certo rispondere, né approfondire. Quello che gli importa, quello che lo fa star bene, è la musica, sono i concerti.
E poi arriva lei, arriva Courtney Love e diventa in un attimo la donna più odiata d'America, quella che ha traviato Kurt, quella che ha reso il bello e malinconico idolo delle ragazzine irraggiungibile, quella che lo ha portato nel giro delle droghe pesanti.
Ma è davvero così? La storia può essere così univoca o quei filmati intimi, quelle riprese personali di momenti folli e di momenti teneri mostrano un amore struggente e potente come pochi in cui le droghe giocavano gioco forza un lato indispensabile per entrambi?
Sta qui tutta la potenza di un documentario così unico, sta nel come si usino questi documenti, di come le interviste ai famigliari e agli amici restino punti di sutura, ma sono quelle immagini, registrate senza sapere la forza che possono avere ancora oggi, a 20 anni dalla scomparsa di Kurt, a lasciare il segno.
Si entra davvero nel suo intimo, come a spiarlo da un buco della serratura, come a leggere il suo diario segreto, lo si sente provare, comporre, in quegli audio in cui biascica, canta, risponde al telefono, in quei video in cui bacia sua moglie, gioca come un bambino con la sua bambina, si arrabbia e si sfoga contro una stampa che vuole sapere tutto di lui, che pretende di saperlo, utilizzando l'animazione per supplire alla mancanza di video, animando quei disegni già così provocatori e simboli di un malessere già adolescenziale.
E sembra di assistere alla cronaca di una morte annunciata, quelle scritte, quegli sfoghi di rabbia su quaderni zeppi di idee, di liste, di disegni, che mostrano una verità oggi così intuibile.
E che quindi fa ancora più male.
Ma quello che ne esce non è la rabbia verso chi non ha saputo fermarlo o capirlo, verso chi lo ha mangiato pezzo dopo pezzo per vendere copie incurante del suo sguardo rassegnato, della sua frustrazione, è tristezza, per una vita vissuta intensamente, ma senza le basi per riuscirci, per un amore grande di un padre che quella figlia può vedere ma non ricordare, probabilmente, e fa conoscere a noi.
Anche per questo non ci si sofferma sulla sua morte, si evitano tutte le diatribe nate negli anni, quelle foto e quei video della polizia non li si mostra, ci si ferma prima, con un tentato suicidio compiuto per amore, con una depressione e un'incapacità di sostenere che sono arrivati al limite.
Così, in questo montaggio del diavolo, il mito di Kurt finisce, Kurt viene umanizzato, il suo sguardo malinconico, la sua bellezza rese finalmente umane, rese quelle di un ragazzo di 27 anni che se n'è andato troppo presto, dopo aver avuto così tanto, ma anche così poco.
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