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Col Mat

Da Francibb @francibb

“Mat” dev’essere stata una delle prime divertite esperienze sull’ambiguità della polissemia, avuta da bambina. Mat come matto o come falso, simile ma non proprio, forse un’imitazione. O forse evoca il Matto dei Tarocchi?

Lo scorso anno abbiamo tentato, ma subito rinunciato, questo giro (siamo dovuti rientrare alla macchiana e così abbiamo perso tempo), per optare a raggiungere – in alternativa – il bivacco Scalon (che consiglio come giro: in quota – son solo 150 metri di dislivello – carino, ben collocato e grazioso bivacco).
Presa al Staol di Plois (1000 m/slm) la silenziosa abetaia, attraversando diagonalmente un paio di volte la strada, raggiungiamo presto (ma con le dovute pause a raccogliere lamponi) il Rifugio Dolomieu, cinquecento metri più in su.

Dolomieu? E chi è costui?
Déodat Guy Silvain Tancrède Gratet de Dolomieu è stato un geologo francese. Fu lui nel 1791 a scoprire le “pietre calcaree molto poco effervescenti con gli acidi e fosforescenti per collisione” delle nostre montagne.  Il nome “Dolomiti” si diffuse in Italia solo dopo la Grande Guerra, quando questo territorio entrò a far parte del Regno d’Italia.

Raggiungibile anche in macchina, il rifugio, è pieno di gente e di parapendisti. Il vento è leggero.
Ci beviamo un bicchierone di estratto di cocomero coccolando una micia alpina, grossa e tosta come un Maine Coon. Riprendiamo il bosco dal quale usciamo quando raggiungiamo la quota 1600, che separa i prati dalle formazioni rocciose. Guadagnano cento metri su cento metri esponendoci all’evoluzione delle nubi che ci offuscano la vista del panorama, camminando su un sentiero scrostato dalla terra: una sorta di lisca bianca adagiata su un prato ingeneroso, battuto dal vento.
Guardando in su ci godiamo tutta la dorsale del Col Mat che offre stupende stratificazioni regolari, come pagine di libri di miti oramai dimenticati, snaturati, rinnegati, lasciati lì, semiaperti, alle intemperie dei millenni.

Arrivati a 1900 metri incrociamo il sentiero che scende verso la Casera del Plan (vedi giro dell’invaso della Val Galina) che ignoriamo per puntare alla cima del monte, ottanta mentri ancora più su.
Dopo una serie di anticime arriviamo in una landa di grasse, sane e rigogliose ortiche e oltre a quelle e al balletto delle nubi di metà giornata, non si vede nulla. La vista è migliore solo verso il Piave. Persino il Toc e lo Spitz di Val Galina appaiono e scompaiono. Quando le nuvole scivolano un po’ sui fianchi della montagna e corrono giù, non posso che tenere incollati gli occhi sui lobi del cimitero delle vittime del Vajon.

Siamo a quota 1980 e penso che questo bel montarozzo lineare si ritrovi un nome svilente.
È più alto di altri, qui attorno; per esempio è più alto del Dolada. Ma, circondato da bastioni senza remissione, il Col Mat sembra fuori luogo con la sua andatura delicata e persino sinuosa.

Scendiamo e, una volta cambiato versante il vento tace immediatamente e veniamo rapiti e saturati dall’intenso profumo delle parnassie.
La vegetazione bassa offre posto a mughi e piccoli arbusti e ai mirtilli.
Convincersi di averne abbastanza di mirtilli è faticoso. Mi rassegno ad alzarmi e tirar dritto, solo quando le mani sono diventate viola e comincio a disperare del riuscire, una volta a casa, a togliermi il colore di dosso. Cerchiamo di raggiungere i ruderi con l’intento di mangiare il nostro super pranzo ma della Casera di Col Mat, troveremo solo un cartello segnaletico.

In verità non riusciamo nemmeno a intuire dove potesse essere stata realizzata una costruzione in questo versante così scosceso.
Facciamo pausa pranzo seduti in mezzo al sentiero (unico posto quasi orizzontale) per poi raggiungere il tracciato dell’altavia numenro sette (link) e poi proseguire verso la Forcella Dolada.

Incontriamo un corvo reale che parla da solo, consolandosi come può nella giornata nuvolosa. Si pone domande e si risponde laconico e rassegnato. Il suo repertorio di vocalizzi è affascinante. Se ne sta su una roccia poco distante da noi a cianciare verso il nulla. Cerchiamo di non disturbarlo, ma il suo palco è proprio sulla direttrice del nostro sentiero, che ora s’è fatto un po’ insidioso a causa dell’erba alta che ne occulta il tracciato e che offre esperienze di precaria stabilità.
Arrivati in forcella non ci facciamo tentare dall’ascesa al Dolada per risparmiarci le ginocchia e ritorniamo nel versante sud e da qui con duecento metri di discesa, raggiungiamo nuovamente il Dolomieu che, nel frattempo, si è davvero riempito di gente. Ce n’è ogni dove e dall’abbigliamento più disparato. Chi in giacca tecnica, chi il camiciola leggera, chi in canottiera, chi in pile. Mi sistemo un calzino e poi divalliamo correndo senza pericoli affidandoci al terreno ricoperto di aghi dell’abetaia che attutisce i nostri salti. Il profumo dell’abete rosso ci


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