«There was once a very lovely, very frightened girl. She lived alone except for a nameless cat». Un tiepido pomeriggio d’autunno, un tè caldo e un libro, non uno qualsiasi ma Colazione da Tiffany, e anche in un’affollata libreria catanese ti sembra di vedere la sagoma dei grattacieli, di sentire il rumore del traffico caotico della Grande Mela e scorgere nel tuo riflesso un po’ di Holly Golightly. Questo è l’effetto che fa, questa è la magia di Truman Capote che le dà voce nel suo Breakfast at Tiffany’s (edito da Garzanti e tradotto da Bruno Tasso), e di Audrey Hepburn, che le dà un volto nell’omonimo film diretto da Blake Edwards. Nel mondo della carta stampata l’io narrante si ritrova, complice la foto di una statuetta africana, catapultato in un ricordo o forse un sogno, di una donna, non una qualsiasi ma la signorina Holiday Golightly «in transito». In un’altra dimensione, quella su pellicola, in una New York anni ‘60, nella fredda luce dell’ennesima alba vista attraverso il finestrino di un taxi, una donna con occhiali scuri e abito da sera osserva la vetrina di una gioielleria, non una qualsiasi ma Tiffany, facendo colazione. Da queste due immagini prende vita la medesima storia, quella di Holly / Lula Mae, intraprendente, sognatrice, romantica arrampicatrice sociale, che si dibatte affannosamente nel tentativo di trovare un posto al mondo che sia suo, che le appartenga e a cui lei possa appartenere; non sa dov’è ma sa com’è.
Capote lo mette nero su bianco, Edwards ci regala anche i colori, e insieme ci offrono un assaggio di cultura americana, visto attraverso gli occhiali scuri o il riflesso di una vetrina. L’immagine che si ricava, quasi un dipinto impressionista, è distorta, filtrata; assomiglia a ciò che vediamo eppure è differente, surreale e allo stesso tempo così familiare, una montatura «ma una montatura autentica», proprio come la sua protagonista. Il mondo che le orbita intorno è il suo palcoscenico, lei non gli appartiene ma le piace recitarvi, con la sua voce «sciocca di giovinezza» e la sua distratta consapevolezza di sé e della sua bellezza. Le differenze tra libro e copione, oltre che a livello narrativo, sono evidenti proprio nelle sfumature emotive di Miss Golightly. Lo scrittore l’ha pensata, l’ha creata e la presenta al suo pubblico così come ha preso vita nella sua mente visionaria e creativa, dove le dà le forme morbide di Marilyn Monroe, che tra le pagine del suo romanzo sembra faccia capolino con la sua espressione un po’ imbronciata e sognante.
La storia alla fine ha premiato invece la scelta dei produttori, che conla Hepburnci regalano un’interpretazione indimenticabile, che le valse una nomination agli Oscar, e una magnifica prova di stile che rende adorabile un personaggio che è, comunque, quantomeno controverso, in bilico tra romanticismo onirico e pragmatico cinismo. Gli sceneggiatori hanno infatti confezionato e ritagliato dal romanzo di Capote, un personaggio che sembrava essere fatto su misura per lei, tanto quanto il mitico abito nero di Givenchy della sequenza iniziale. Se a Capote dobbiamo quindi il merito di aver dato vita al personaggio, all’attrice dobbiamo il merito di averle dato letteralmente forma, non una qualsiasi ma la sua inconfondibile sagoma.
Quando si pensa a Colazione da Tiffany due sono infatti le cose che istintivamente si materializzano nella nostra mente: la prima è un’immagine, una figura esile in tubino nero e perle, Audrey Hepburn; la seconda è una melodia, Moon River, composta da Henry Mancini e Johnny Mercer appositamente per fare da colonna sonora al film e per essere cantata dall’attrice (e che regala ai due compositori un Oscar, nel 1962, per la miglior canzone). Se un neo, più che essere trovato, può essere disegnato sul volto di questo classico del cinema è il finale: lieto, con buona pace del pubblico hollywoodiano, diversamente da quello aperto voluto dallo scrittore che lascia ai suoi lettori il piacere di scegliere per Holly il suo posto nel mondo. Nel film, come nel romanzo d’altronde, però nulla è lasciato al caso, e questo, insieme al genio di Capote e ad un’icona comela Hepburn, ha contribuito a renderli dei classici della letteratura e della settima arte, irripetibili e soprattutto intramontabili, dopotutto «A thing of beauty is a joy forever [...] but then, class doesn’t age!».