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Trattasi perciò di una vera e propria cronistoria corredata di date e orari precisi come se si trattasse di un resoconto giornalistico, eppure la precipua attinenza dei fatti, di un appiglio al reale, scema, perde interesse con la progressione narrativa che rivela stilisticamente e semanticamente il solito tracimante Sono il quale dà vita (/morte) ad uno strano circo che attraverso i suoi personaggi così caricaturali, così allegorici, così miikiani, così sononiani, dona fottutissima (in)credibilità a processi micro che rimandano ad un sottotesto mac(ab)ro e urgentemente attuale.Come per Strange Circus (2005, occhio perché c’è un’altra Mitsuko) questa è una vicenda di spersonalizzazioni, di disindetificazioni, di uno smarrimento totale del sé personale e sociale. È chiara la distruzione dei ruoli: la moglie, già surrogato della deceduta figura materna, accetta le avances di Murata, la figlia Mitsuko apostrofa malamente il proprio padre, e quest’ultimo si delinea un oggetto passivo delle varie angherie che gli toccano. Come oculatamente riportato da Dario Stefanoni (link) questa è una narrazione che mostra sopra e oltre le righe l’annichilente scivolamento della famiglia giapponese in una pozza di fetida disumanità, con particolare riferimento alla figura paterna segnata dal marchio indelebile della violenza e sballottata fra estreme vessazioni a cui corrispondono terribili reazioni.
Ma questa è anche una storia di imbarbarimento che procede per accumulo.
Accumula lo spettatore che vede via via l’occhio di Sono farsi sempre più frenetico, e accumula il povero Shamoto che ribalta il suo status da vittima a carnefice.
La locandina evocante un film non troppo lontano da qui come Cane di paglia (1971), mostra l’uomo con gli occhiali da vista semirotti, infatti è proprio nell’apice narrativo della pellicola – un duello a mani nude da vedere e rivedere che si conclude con una forzata violenza ai danni della moglie di Murata – che il protagonista perde un gingillo così “borghesizzante” come lo sono un paio di occhiali, e così inizia il suo tracollo verso la bestialità.
Dustin Hoffman alla fine guidava in una strada circondata dal buio, in Tsumetai nettaigyo è il buio a ad oscurare la Terra.
Aldilà dello splatter massicciamente presente, delle varie aberrazioni sessuali e omicide (la figlia che diventa voyeur e vittima del proprio padre), ciò che stordisce davvero è l’apatia generale che plasma questo gruppo di persone, una sorta di desertificazione dei sentimenti alimenta un’atmosfera di sadismo che non ha scappatoia, e lo dimostra il caustico (e splendido) finale dove Mitsuko sbeffeggia il padre morente.
La massima conclusiva è degna delle due ore e mezza precedenti, Sono ci dice che la vita è dolore, e avendo trattenuto il fiato per tutto questo tempo non si può fare altro che credergli.
Ah no, c’è un’altra cosa che si può fare: applaudirlo.
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