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Il pane a Distanza

Creato il 13 settembre 2021 da Annalife @Annalisa
pane Distanzabreve, intenso, non appagante

Il titolo non vuole essere irriverente, ma visto che per motivi di salute non posso partecipare in presenza alla riunione del Circolo, provo a inserire qui che cosa penso del libro da leggere per oggi: “Il pane perduto“, di Edith Bruck.

Più di una volta, scegliendo questo o quel libro per le riunioni del Circolo, mi ha colpito vedere come ci fossero sempre dei rimandi, delle assonanze apparentemente casuali con ciò che succedeva intorno. Mi sembra sia la stessa cosa per questo libro: scelto parecchi mesi fa, porta con sé la vittoria del premio Strega Giovani e del premio Viareggio, e, a partire dalla visita di papa Francesco all’autrice, il recupero di una scrittrice di cui, confesso, niente sapevo. Talmente niente che mai mi sarei immaginata, alle spalle di quest’opera, una serie corposa di altri romanzi, testi, non so come chiamarli (questo, per esempio, che per me è un romanzo, nelle classifiche dei Giornaloni sta nella sezione Saggistica). Molti, se non ho capito male, incentrati sul tema delicato e urgente della Shoa.

Prima osservazione, dunque: con un tema come questo, difficile non com-patire, non partecipare, non approvare la figura dell’autrice e il prodotto che ne esce.

Tuttavia (seconda osservazione) non tutto fila liscio: il libro è breve, davvero (e stendiamo un velo sull’editore che vende a 16 euro 128 pagine), e deve perciò correre un po’ se vuole coprire l’enorme arco di tempo che va da prima della Shoa ai nostri anni. Enorme arco di tempo non tanto per gli anni trascorsi, ma per quanto di estremo e di intenso questi anni racchiudono.

Forse per questo c’è, sul fondo, una sorta di (mia) insoddisfazione: io avrei voluto maggior approfondimento, un soffermarsi più lento su alcune immagini, mentre a volte ho avuto l’impressione di un affastellarsi di avvenimenti frettolosi e di scrittura impaziente. Capisco che ormai su questo tema si è già detto e scritto di tutto, e forse, sì, in certi punti basta che qualcosa ci venga soltanto suggerito per aprire nella nostra testa una serie di letture, film, testimonianze, documentari che sono stati meno reticenti nel mostrarci la realtà di quegli anni. Epperò ugualmente nel libro manca qualcosa.

Devo anche ammettere che, in certi casi, queste immagini, queste visioni improvvise e subito superate hanno la loro ragione di essere (almeno nella prima parte): mi viene in mente il ritratto del padre in mutande all’arrivo dei gendarmi “che si aggirava nella casa in cerca di niente” o che, subito dopo, insiste per chiudere la porta ormai rotta. Altre volte, invece, soprattutto nella descrizione degli anni più vicini a noi, queste figure, questi avvenimenti mi hanno dato l’idea del caotico e, complice anche una diminuita commozione, diventano a volte anche incongrui, direi persino inutili (le ballerine e le avances di Tognazzi e Walter Chiari? Really?, maddài!).

Non so se, alla fine, l’autrice ha sentito il bisogno di trovare una dimensione più leggera, o se c’era soltanto l’esigenza di mettere nero su bianco tutto tutto tutto quello che da lei non era ancora stato detto (dovrei leggere gli altri libri, per capire meglio). So che il risultato finale non mi soddisfa, che quella terza parte di vita contemporanea stride un po’, mentre sarebbe stato interessante approfondire (di nuovo, sì) o magari piantar lì tutto dopo il racconto del ritorno alla normalità (che è un intermezzo lungo, a tratti noioso, ma che ha il pregio di farci toccare con mano qualcosa di cui poco si è parlato: la rinascita dopo la catastrofe, le difficoltà di chi si è salvato e deve farsi perdonare da chi è stato sommerso, ma non è ascoltato da chi non ci è passato).

E mi scuso se ho parlato di noia in un libro così breve, ma, ad esempio, le vicissitudini col ragazzo-marito incontrato sulla nave hanno avuto uno spazio di cui avrei fatto a meno, così come i particolari sulla strampalata compagnia di ballo o sui corteggiatori napoletani.

È in quest’ultimo capitolo che Bruck , dopo aver detto che, per raccontare Auschwitz, ci sarebbe voluta una lingua nuova, spiega la sua decisione di scrivere in italiano: l’uso di una lingua non natia è credo anche un modo per esprimere con più distacco qualcosa che si è pensato inenarrabile (sempre che non si voglia scomodare Calvino e il suo “il luogo ideale per me è quello in cui è più naturale vivere da straniero”).
Eppure, anche qui, c’è qualcosa che non mi soddisfa: mi viene in mente un’altra scrittrice (Ornella Vorpsi e “Il paese dove non si muore mai”). Per sua stessa ammissione, scrivere in italiano (lei, albanese e residente a Parigi) le è servito per una lingua “svestita d’infanzia” che le ha consentito di raccontare con il dovuto distacco le sfumature più terribili della sua terra natia. Non so se questa era anche l’intenzione di Bruck (che comunque è in Italia da sessant’anni), so che ho avuto l’impressione di trascuratezza, qualche errore, forse un editing superficiale. Ho letto (ma non trovo più la fonte) che si tratterebbe di un testo dettato, e infatti l’autrice spiega nell’ultimo capitolo che sta perdendo la vista, e questo potrebbe spiegare alcune imprecisioni; in realtà, però, anche altre scelte stilistiche mi hanno lasciata perplessa: il salto dalla terza persona (che rende ancora più cupa e violenta la prima parte fino all’arrivo dei gendarmi) alla prima sembra essere spiegato dalla consapevolezza (“sfuggì dalla mia bocca, improvvisamente adulta” è la prima frase in soggettiva), ma mi ha lasciato un po’ lì.

Poi, è vero, ci sono osservazioni, flash, frasi poetiche e potenti (“Con quel saluto era entrata un’ombra permanente, una nebbia nelle anime che non produceva parole, né illuminazione”, “anche il silenzio, l’aria, stavano diventando minacciose” (minacciosi, ma vabbè), che tuttavia non bastano a soddisfarmi.

Alla fine, dunque, un giudizio positivo anche come tributo alla Shoa, ma senza essere stata del tutto accontentata dalla lettura.

Edith Bruck, Il pane perduto, La Nave di Teseo, 128 pp. 16 euro


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