Come Dio comanda

Creato il 07 dicembre 2010 da Alekosoul

Onestamente devo ammettere che non mi capita spesso di entusiasmarmi per un’opera narrativa italiana contemporanea. Succede, ma sono casi davvero rari, e proprio per questo scatenano un discreto clamore, nell’immaginaria platea che popola il mio personale mondo culturale interiore, fatto di gusti e consumi onnivori e a volte vaghi, ma, a ben vedere, spesso accomunati da affinità elettive piuttosto forti.

Senza andare a indagare ulteriormente in questo marasma multimediale interiore, nel caso specifico mi sono sorpreso ad apprezzare Niccolò Ammaniti, in questo romanzo, certamente mainstream come successo ed estrazione, e anche pop, se vogliamo, nelle intenzioni e nei modi comunicativi. Il nostro buon Ammaniti, nato, come autore, all’interno dell’ipotetica (perchè inventata dalla critica) frangia denominata Gioventù Cannibale, è ormai da qualche anno stabilmente nella zona alta delle classifiche di vendita, a ogni sua nuova prova letteraria. I motivi di questo successo vanno ricercati nell’azzeccata ricetta applicata dall’autore, che è riuscito, come pochi altri in Italia, a tradurre stili e tematiche del romanzo thriller/noir tipicamente anglosassone contemporaneo, in narrazioni con forti radici nel nostro contesto nazionale. Un autore dall’analogo percorso stilistico potrebbe essere Carlotto, sebbene quest’ultimo sia comunque parecchio differente per background e aspirazioni finali.
Niccolò Ammaniti compone storie che sono essenzialmente fiction virate al nero, narrazioni nelle quali personaggi sovente appartenenti agli strati più umili e problematici della società, si trovano invischiati in torbidi avvenimenti che segnano il passo di un’Italia alla completa deriva morale, nella quale primordialità, istinti, predazione, sono caratteristiche che accomunano tutti, a vario titolo, come in una vasta palude stagnante, dalla quale è impossibile fuggire.

Come Dio comanda è un romanzo che segue fedelmente la linea dell’autore, e si inserisce nel marcio solco del pulp, del noir a tinte forti, in cui al lettore non vengono risparmiate crudeltà, miserie, turpitudini, ma queste anzi vengono poste in primo piano, affrontate in dettaglio, perchè è così che fa, in fondo, la vita stessa.
Vi è un profondo disincanto e una grande desolazione, alla base di questa storia, in cui la speranza e la positività sono più che altro deliri di un folle (un grandioso Quattro Formaggi), o, quando va bene, i sogni di un adolescente (Cristiano Zena, ma anche Fabiana Ponticelli), certamente non aiutato dagli inefficaci mezzi di un welfare state ripiegato su se stesso (l’assistente sociale Trecca).

Un romanzo forte, ma allo stesso tempo dimesso, che s’accontenta di narrare le varie prospettive che compongono la tempesta esistenziale di una manciata di personaggi, tutti toccati profondamente dal dolore, dalla perdita, dalla morte, tutti a loro modo inadatti e inadeguati, quasi vili, nel loro egoismo che rispecchia sostanzialmente un estremo bisogno degli altri. Per cui, come spesso accade, le maschere che indossano nella vita di tutti i giorni (su tutti l’estremismo politico del padre Rino), sono ciò che meno in realtà vorrebbero essere, sia in positivo che in negativo. Ed è proprio per questa alternanza fra senso e non-senso nei comportamenti, che ci si sente vicini e prossimi, umanamente, alla disastrata famiglia Zena e ai loro compari di disavventura, che tanto echeggia casi umani ed esperienze abituate a scorrere nei nostri avvilenti TG.

L’impietosa cronaca di un omicidio, l’indagine sulle motivazioni di un crimine, di un adulterio, sono solo pretesti per tentare un’analisi di bui recessi umani, quasi del tutto scevri da disinteressata compassione, pietà, amore, e imbevuti solamente dei succhi marci provenienti dal cadavere in decomposizione di un paese, o di una ragazza, lasciato insepolto in un bosco, o alla deriva in un fiume in piena.


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