Di David Lipsky ma molto opportunamente recante sul dorso ‘Lipsky-Wallace’: così in libreria può completare la serie di testi wallaciani allineati sullo scaffale e non può sfuggire al fan, all’howling fantod – se mai non avesse aspettato il testo sin dal primo sguardo al catalogo minimum fax, al Salone del libro di Torino dello scorso aprile.
Ho sviluppato, leggendo il libro, una grande antipatia per Lipsky. Insomma, capisco: ti chiami David, sei uno scrittore e nel 1996 sei inviato dal giornale per cui scrivi – Rolling stone – a intervistare un David scrittore che sta avendo enorme successo negli States, e la tua fidanzata si è informata sulla sua vita privata. Hai sbirciato la sua posta e hai letto la risposta di una sua amica:
Come aspetto, Wallace è un fico. Un tipo grande e grosso con i capelli lunghi e un po’ stopposi. Sembra un po’ una rock star. Suda copiosamente. Porta una bandana in testa, e partecipa così all’esperienza della vita metropolitana americana. Mi pare che non sia sposato. Che altro volevi sapere?
Capisco che un po’ di atarassia intervistatoria venga meno, ma è probabile che chi legga Come diventare se stessi sia davvero innamorato (della scrittura) di David (Foster Wallace), quindi il vantaggio di Lipsky, la sua posizione di punto di vista principale del libro è pressoché ininfluente. Quando Lipsky, tra parentesi quadre, scrive che
[David ha imparato la lezione sbagliata: quelli che sembrano adorare la stampa come, che ne so, Winnie Pooh adora il miele, fanno la figura dei cretini; ma anche quelli che sembrano odiarla rischiano di passare per cretini]
dimostra di non aver capito quello che emerge chiaramente leggendo questo libro, e cioè che il tormento interiore di Wallace, il suo schermirsi davanti alla stampa, la sua ritrosia non sono affatto pose. Nonostante DFW si affanni a esplicitarlo, lui e il suo intervistatore restano invischiati nel paradosso della sincerità: non si può essere sinceri – né tentare di esserlo – senza dare l’impressione di volerlo sembrare.
Nonostante i fastidiosi commenti di Lipsky il libro è meritevole perché il lettore può estendere le parentesi quadre a tutto ciò che l’intervistatore scrive e godersi la voce di Wallace: senza filtri, senza limature, senza la perfezione maniacale dei suoi scritti, ma la sua voce. Che rinnega il gioco metaletterario di Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, che spiega di aver creato, per i pezzi giornalistici di Harper’s, un personaggio «un po’ più stupido e un po’ più imbarazzato di [lui]», che riflette su intrattenimento e scrittura, e conferma che in Infinite jest non c’è nulla di banale o lasciato al caso, e che del capitolo sull’incomunicabilità di Hal, l’incipit di IJ, ha scritto «quindici o venti versioni».
Come diventare se stessi (minimum fax, 443 pp., € 18,50) è un libro che i wallaciani non possono non avere, che è impensabile ignorare se si è affascinati dallo scrittore in bandana e che è fondamentale per capire meglio quale posizione prendere all’interno del dibattito sulla morte del Postmoderno: lo stesso Wallace, infatti, che amava definirsi «realista», critica il nonsense della letteratura che non usa i ‘fuochi artificiali’ per comunicare qualcosa al di là di se stessa. Lo scopo di uno stile ardito è di essere funzionale alla storia, alla comunicazione di un contenuto. Wallace – che i suoi detrattori se ne facciano una ragione – aveva in gran conto il lettore e gli chiedeva (e gli chiede) solo sforzi che siano giustificati e ripagati.
L’intervista di Lipsky è stata pubblicata poco prima della traduzione italiana del postumo Il re pallido, libro dopo il quale, davvero, potremo dire, mestamente, «non una parola di più». E che è pubblicato da Einaudi. E questo indica la continuazione della lotta minimum fax-Einaudi per la pubblicazione di Wallace: la casa editrice torinese ormai mondadoriana l’ha spuntata per i diritti sui testi di Wallace, ma i romani di ponte Milvio in hoc signo (DFW) continuano a combattere.
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