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Come è vecchio il nuovo

Creato il 13 dicembre 2012 da Faustodesiderio

Quale sarà – qual è – la vera novità di questa campagna elettorale? Che il nuovo è vecchio. Ci si affanna a vedere quali potranno essere gli elementi di innovazione della lotta politica e delle proposte dei partiti e delle coalizioni ma non si nota che inevitabilmente ogni novità è irrimediabilmente datata, vecchia, decrepita. Prendiamo subito il caso più evidente e noto: Silvio Berlusconi. È candidato per la sesta volta alla guida di Palazzo Chigi (anche gli italiani eleggono il Parlamento e nulla più) e il suo cavallo di battaglia è ancora una volta questo: giù le tasse. Giusto, giustissimo. Anzi, bene, bravo, bis. Solo che qui siamo al terzo bis. Dunque, il nuovo è vecchio. Prendiamo un altro caso: la Lega non più guidata da Umberto Bossi ma da Roberto Maroni. Cosa dice l’ex ministro del Lavoro e l’ex ministro dell’Interno e perfino – se andiamo più in là negli anni, ma perché non ci dovremmo andare? – l’ex vicepresidente del Consiglio? Dice una cosa di questo tipo: che il Settentrione deve essere autonomo e che la Lega deve rappresentare le istanze della “questione settentrionale” (ecco, non si esprime proprio così ma la sostanza è questa). Ancora una volta, il nuovo è vecchio.

Passiamo il Rubicone e guardiamo a sinistra. Nichi Vendola, venti anni dopo e passa la caduta del muro di Berlino e dopo una manciata di segretari generali della Cgil, è ancora lì a teorizzare e predicare quello che lui chiama «un nuovo racconto civile» e ci manca poco che proponga un’alleanza tra i contadini del Sud e gli operai del Nord. Anche qui, il nuovo è vecchio. E poi c’è Pierluigi Bersani che con chiarezza ha voluto dire nella notte dei festeggiamenti al cinema Capranica che le favole vanno bandite: «Noi non racconteremo favole». Ma allora la prima favola che cade come un’illusione o una pera cotta è proprio la pretesa che si possa governare con una sinistra che è allo stesso tempo, secondo il suo costume, al governo e all’opposizione. Anche questo è un film già visto. Non a caso Bersani ha vinto su Matteo Renzi che a sinistra rappresentava effettivamente una novità. Breve riassunto: il bipolarismo bellico, che ancora una volta riproduce la guerra civile mentale tra gli schieramenti “esportandola” tra gli italiani, è quanto di più vecchio ci sia in giro in Italia.

Ma – si dirà – la vera novità è Beppe Grillo. Già, il Movimento 5 stelle è effettivamente nuovo perché venti anni fa non c’era e nemmeno dieci anni fa era in gara e non era presente neanche nelle ultime elezioni politiche del 2008. È vero: ad essere nuovo è nuovo perché è un movimento neonato. Eppure, questo neonato si porta dietro già tutti i vizi del bellicismo inconcludente della politica nuovissima e risolutiva della Seconda repubblica. Il comico genovese si presenta agli italiani con la forza della sua esperienza cabarettistica – Italiani! -, è bravo e sapiente nell’usare il registro dello spettacolo, fatto di battute e di ironia e persino di auto-ironia, e miscelarlo con la cronaca politica, le agenzie Ansa, la rabbia e l’esasperazione degli italiani, dei disoccupati, dei precari e di quanti in questi anni di illusioni e false attese hanno aspettato invano un cambiamento della politica, delle istituzioni, della società, del lavoro. Sennonché, la sua figura di capopopolo e di guru della politica a mezzo web si integra alla perfezione con il “ventennio bruciato” della Seconda repubblica. Grillo è l’ultimo dei rivoluzionari che sono apparsi sulla scena. Ma a questo mondo non c’è niente di più nuovo e dunque di più vecchio della rivoluzione. Voglio riportare una bella riflessione di un grande scrittore italiano, Alberto Savinio (da Sorte dell’Europa, Adelphi): «Chi ha da compiere un’opera lunga e profonda, un’opera che maturerà nel futuro, è per necessità conservatore. Il rivoluzionario è uomo del momento, è uomo della superficie, caccio fuori la parola che mi brucia la lingua: è un frivolo». Ecco qui la parola giusta: il nuovo è vecchio perché è frivolo. Dunque, non duraturo, non buono, non produttivo. Vano.

Mi soffermo ancora per qualche riga su questa equazione: il nuovo è vecchio. Perché oggi il nuovo è solo retorica e nulla più (un po’ come il famoso “chiacchiere e distintivo” del film Gli intoccabili)? Per un motivo essenziale: perché non ha fatto i conti con i suoi fallimenti. Il nuovo per essere effettivamente tale deve prendere su di sé il vecchio e lo deve “superare”. Lo deve ri-conoscere per quel che è, e solo dopo, magari, lo potrà anche rifiutare o ignorare o maltrattare. Ma ciò che il nuovo non può mai fare se vuole essere se stesso è la spavalderia di presentarsi come una novità assoluta che è giusta ed efficace proprio perché è nuova. Una novità di tal fatta diventa autentica e vera ed utile, per sé e gli altri, prendendo coscienza di sé attraverso i propri errori. È proprio quanto non è avvenuto nel “ventennio buttato” della Seconda repubblica. Perfino il sacrosanto ricambio generazionale – via i vecchi, largo ai giovani – non ha molto senso e, anzi, può essere soltanto strumentale ad una visione nuovista in cui il nuovo è solo il vecchio. Non è forse esattamente questo che sta facendo ora Berlusconi con le sue liste (ma anche Bersani ha fatto il suo bell’annuncio sul ricambio generazionale)? Ha annunciato che sarà ricandidato soltanto il 10 per cento dei vecchi parlamentari: così il ricambio generazionale è perfettamente integrato nell’immutabilità politica. Anzi, è proprio il ricambio generazionale, attraverso l’uso strumentale delle giovani generazioni, a garantire il trasformismo e la inamovibilità della vecchia politica che non prende atto dei suoi fallimenti. Ma anche questa novità è roba vecchia. Il giovanilismo è uno dei mali – e tra i peggiori – del Novecento. È proprio dei regimi illiberali illudere i giovani e usare la gioventù come mezzo di sostegno. Per quanto possa sembrare paradossale, non è la gioventù ad essere garanzia di novità. Spesso accade il contrario: la giovinezza è sinonimo di moda e conformismo.

Ciò che può essere e deve essere vecchio o nuovo è solo il pensiero, non certamente le carte d’identità. È bene citare una frase di Cicerone che prendo a prestito – mi sarà concesso, no? – dal libro di Ferdinando Adornato: «Come mi piace il giovane che ha in sé qualcosa di vecchio, così mi piace il vecchio che ha in sé qualcosa di giovane: chi segue questa norma potrà essere vecchio nel corpo, ma nell’animo non sarà vecchio mai». Non conta, allora, che in campo vi siano i giovani o vi siano i vecchi. Ciò che conta è il cambiamento – dunque la novità – dei comportamenti, delle azioni. Se non c’è questo cambiamento, si potrà fare la più grande rivoluzione politica e si potrà ottenere la più grande vittoria elettorale, o di qua o di là, ma nulla cambierà e suonerà ancora una volta eterna la massima del Principe di Salina: «Tutto deve cambiare perché nulla cambi».

La novità della politica italiana non può essere che una sola: la realtà nazionale e la realtà europea così indissolubilmente legate. Dunque, non una novità specificamente politica, ma prima di tutto una presa d’atto storica. Del resto, il nostro stesso pensiero storiografico e il vanto della nostra cultura umanistica ci insegna da sempre che una buona coscienza politica e morale non potrà che poggiarsi su una buona coscienza storica. Che cos’è, se guardiamo in modo sereno e non turbato gli anni buttati al vento della Seconda repubblica, il passaggio che c’è stato dalla fine della Prima repubblica alla novità della Seconda – attraverso stravolgimenti, terremoti, suicidi e perfino attraverso quella che un giornalista come Giorgio Bocca volle chiamare “rivoluzione italiana” – se non un taglio netto e radicale non solo e non tanto con la storia repubblicana ma con la storia d’Italia nel suo insieme. La prima “discesa in campo” di Berlusconi voleva essere qualcosa di risolutivo, definitivo. La “rivoluzione liberale” venne proposta agli italiani – a noi – come la soluzione di tutti i mali. Ma cosa ci può essere al mondo di più stupido che pensare che i mali finiscano? E cosa faremmo qui per il resto dei nostri giorni?

La stessa cosa – affinché non sembri ciò che non è, ossia che il Cavaliere è il peggiore dei mali italiani – si può vedere se, tornando indietro nel tempo, gettiamo lo sguardo nel campo di sinistra: anche lì, ancora sulle macerie fumati del comunismo storico e del pentapartito, si pensò che la “gioiosa macchina da guerra” guidata da Achille Occhetto avrebbe non solo vinto le elezioni e portato finalmente i comunisti a Palazzo Chigi ma, addirittura, avrebbe compiuto il senso stesso della storia italiana e dato vita finalmente a una nuova antropologia. Tanto a destra quanto a sinistra si pensò che la propria novità fosse assoluta. E infatti lo era. Ma così assoluta da risultare falsa e bugiarda. Così invece di cambiare la storia italiana, quelle novità traumatiche hanno finito solo per confermare l’eterna italianità che, alla fine, ha più i caratteri della commedia che non quelli della tragedia. Ogni “polo” pensava di essere il tutto invece che una sola e piccola parte. Il bipolarismo che nacque fondò una democrazia dell’alternanza che era la parodia di se stessa: si rifiutò da subito di incontrarsi su valori comuni sui quali si può fondare – se ci sono – una democrazia compiuta e matura. Dopo venti anni persi questo bellicismo si ripresenta ancora a noi con tutte le sue caratteristiche. Proprio tutte ed è inutile stare qui a sottolinearle ancora una volta. Invece, vale la pena evidenziare che la possibilità non solo di cavarcela ma anche di provare a costruire una democrazia più decente passa per l’Europa.

Non è impolitico o antipolitico, è semplicemente infantile non rispettare gli impegni internazionali liberamente assunti. O, se si vuole, gli impegni si possono anche disattendere e ricontrattare, ma con autorevolezza e spiegando bene alla nazione a cosa si va incontro. L’Europa oggi, come negli anni del secondo dopoguerra in cui l’Italia aveva in gioco nientemeno che la continuità ed esistenza del suo Stato nazionale, è non solo – come si dice con enfasi – la nostra salvezza, ma il nostro destino. Le accuse e le critiche che si muovono ora da più parti all’indirizzo della Germania, attizzando un nazionalismo che all’Italia non ha mai portato nulla di buono, sono solo la manifestazione della cattiva coscienza della politica italiana che non vuole fare i conti con se stessa, i suoi errori, le sue inadempienze, le sue menzogne. La novità più autentica e salutare della campagna elettorale sarà quella di rappresentare con il maggior buon senso e ragionevolezza gli interessi italiani degli europei e gli interessi europei degli italiani. Rappresentarli a chi? A quel vasto ceto medio italiano che pur resiste agli estremismi antieuropei che arrivano da destra e da sinistra. Il montismo – perfino prescindendo dalla persona di Mario Monti, che se però farà parte della scena politica sarà per tutti meglio, molto meglio – è la versione contemporanea dell’europeismo. Una politica di stampo europeo, compreso un graduale ma significativo calo delle tasse e un necessario ridimensionamento della spesa pubblica, è l’unica novità possibile della politica italiana e di questa campagna elettorale decisiva per la speranza o il declino.

tratto da Liberalquotidiano.it del 13 dicembre 2012



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